Sembra una cosa da supereroi, ma non lo è affatto. È un bellissimo gioco di squadra, una partita di calcio, dove, per vincere, ognuno deve tenere la propria posizione, rispettare il proprio ruolo». A parlare così è Barbara, 50 anni, 3 figli «fatti in casa», dagli 11 ai 22 anni, e Sasha, una piccola di 2 in affido. Con lei chiacchierare è un piacere. Sarà per il tono calmo, accogliente o per il sorriso aperto, proprio come la sua splendida famiglia «a fisarmonica» che ogni tanto “si allarga” per fare spazio ai bambini che ne hanno bisogno. «Visto da lontano l’affido sembra una cosa difficilissima, ma più ti avvicini, più lo metti a fuoco e più capisci che è fattibile, anche grazie al supporto degli operatori sociali e al confronto con le altre famiglie» continua.

In Italia gli affidi sono diminuiti

Non molti, in Italia, però la devono pensare come Barbara. A dirlo sono i dati. Negli ultimi anni gli affidi sono in calo, in alcune Regioni anche del 20-30%. «I numeri del 2019, gli ultimi disponibili, dicono che 13.555 bambini sono stati dati in affido e che 14.053, invece, sono quelli in comunità» spiega Frida Tonizzo, presidente di Anfaa, l’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie che fa parte del Tavolo Nazionale Affido. Un numero grande, che ha il sapore amaro della sconfitta. «Perché l’affido che, a differenza dell’adozione, prevede una permanenza in una nuova famiglia che può durare mesi, anni o anche tutta la vita, per molti di questi bambini, soprattutto i più piccoli, rappresenta quella possibilità di “rifiorire”, di rompere la catena negativa di maltrattamenti e dolore che si portano dietro e che, se viene spezzata, permette loro di diventare adulti responsabili».

Genitori bambini

Ma quali sono i motivi per cui le famiglie italiane hanno ridotto la propria disponibilità all’accoglienza? «Prima c’era un atteggiamento di apprezzamento nei confronti dell’affido. Negli ultimi anni, invece, per colpa anche di casi di cronaca come quello di Bibbiano, il clima è cambiato, le famiglie hanno iniziato ad avere paura, a non fidarsi delle istituzioni, a temere la burocrazia. È venuto a mancare il consenso sociale» spiega la presidente. Insomma, un mix di fattori che, complice anche il Covid, ha fatto flettere i numeri.

Ma, cosa più grave, ha diminuito le possibilità per questi bambini di tornare a sorridere, sentirsi al caldo, al sicuro. «La maggior parte dei genitori d’origine vuole bene ai figli, ma non riesce a dare loro quello di cui hanno bisogno» continua Tonizzo. E mamma Barbara, come si fa chiamare dalla sua bimba, lo sa. «Sasha quando è venuta da noi non aveva ritmi, mangiava a orari assurdi, non giocava con niente, dormiva di giorno e stava sveglia di notte. I nostri primi compiti sono stati farla sentire una figlia, una sorella, non un ospite, e mettere delle regole» spiega.

Compiti tutt’altro che facili se si pensa che questi bambini quasi sempre si portano dentro ferite profonde. «Le famiglie affidatarie devono mettersi al fianco dei piccoli, andando allo stesso passo. Essere accoglienti, dare loro tutto il tempo necessario per tornare a vivere, a emozionarsi, a sentire. Ma soprattutto, cosa non facile, devono saper accettare il loro dolore» spiega Donatella Fiocchi, psicoterapeuta didatta A.I.P.P.I (Associazione Italiana Psicoterapia Psicoanalitica Infanzia Adolescenza Famiglia).

L’importanza di dare ai bambini un riparo protetto

Proprio quello che Barbara, suo marito e i loro tre figli stanno facendo, con coraggio, gioia e fatica. «Prendere un bimbo in affido vuol dire fare spazio. Farlo fisicamente, noi oramai teniamo sempre un armadio vuoto in casa pronto per essere riempito, ed emotivamente. Il nuovo che arriva è un dono, una ricchezza, per tutti» spiega Barbara. «In noi non c’è un desiderio di possesso nei confronti di Sasha, sappiamo bene che ha una mamma e un papà. Il nostro ruolo è quello di fare un pezzetto di strada accanto a lei e di darle quegli strumenti per poter camminare da sola».


Degli oltre 13.000 bambini che nel 2019 sono stati dati in affido, il 30-40% è tornato nella famiglia d’origine


E quando Barbara parla di strumenti non si riferisce tanto al sostegno materiale, ma a qualcosa di più profondo. «Per questi bambini è fondamentale trovare un ambiente di cura dove poter crescere emotivamente, in cui si sentano accolti, amati. Un ambiente in cui possano tornare a essere piccoli, mostrando fragilità, paure, rabbia» spiega la dottoressa Fiocchi. «E questo nuovo nido, caldo e sicuro, per loro è fondamentale, è l’impalcatura su cui costruire una casa solida: perché permette di imparare ad affezionarsi, a voler bene nel modo corretto. Un bambino che non si affeziona sarà poi un ragazzo e un adulto che non saprà costruire legami affettivi sereni, stabili, duraturi».

Bambina bambola

L’importanza di dare a questi bambini un riparo protetto la conosce bene anche un’altra mamma, altrettanto forte, onesta e coraggiosa. Veronica, 44 anni, ha dato in affido la sua piccola Teresa, gravemente disabile, quando aveva pochi mesi. «Appena è nata è risultata sorda e ci hanno detto che probabilmente non avrebbe mai camminato. Per 4 mesi me ne sono presa cura giorno e notte ma non vedevo miglioramenti. Ero disperata, sola e una sera ho toccato il fondo: mi sono affacciata al balcone con lei in braccio e ho guardato giù. Poi, per fortuna, sono tornata dentro e mi sono detta: “Basta, devo farmi aiutare”» racconta con una voce pacata, sicura, quella di chi ha deciso, come dice lei stessa, di fare una scelta durissima che può sembrare egoista ma che in realtà è estremamente generosa e onesta.

«Avrei voluto riuscire ad amare Teresa con il sorriso, ma sentivo di essere inadeguata, non volevo essere una madre badante. E allora ho preferito mettermi di fronte ai miei limiti, guardarli e decidere di darle quella possibilità, che ogni bambino si merita». Sono ormai 8 anni che Teresa è in affido in un’altra famiglia. E con loro resterà. Veronica va a trovarla tutte le settimane con i suoi altri due figli e quando si tratta di salutarla è tranquilla. Anzi. «Sono felice perché so che sta bene, che riceve tutte quelle cure e quell’amore di cui ha bisogno. E sono grata alla nuova mamma perché le ha regalato quel sorriso che io non ero in grado di darle» dice.

Il rapporto con la famiglia d’origine

Quanto sia importante mantenere un rapporto positivo con la famiglia d’origine, quando è possibile, lo sa bene anche Barbara, che appena può fa incontrare Sasha con il suo papà. «I legami affettivi, se sani, vanno rispettati e mai recisi del tutto. Bisogna condividere con la famiglia d’origine la cura, i progressi, la quotidianità di questi bambini» dice. E questa idea di continuità, di un filo di seta, sottile ma resistentissimo che non va tagliato, trova d’accordo anche la psicoterapeuta Donatella Fiocchi. «È importante che questi bambini recuperino un rapporto con i genitori di origine perché li aiuta a far pace con quella parte della loro vita che li fa soffrire. Hanno bisogno in qualche modo di “riparare” le ferite per andare avanti, per crescere, per non sentirsi più sbagliati».

Ma riuscirci non è sempre facile perché spesso, come è naturale che sia, può subentrare la rivalità tra i genitori. «A volte penso che il mio modo di crescere Sasha sia migliore. Ma poi, quando mi confronto con i suoi genitori, capisco che ce ne può essere anche un altro, ugualmente valido. E allora faccio un passo indietro, con umiltà e rispetto, e cerco di rielaborare la gelosia, trasformandola in un’opportunità, in un momento di crescita» spiega Barbara. Una strategia che sembra funzionare bene visto che alcune mamme dei bambini che lei negli anni ha preso in affido (8 in tutto) la chiamano ancora, per chiederle consigli.

Improvvisamente cala il silenzio. Barbara smette di parlare e sorride, guardando Sasha giocare. Probabilmente sta pensando a quando anche lei, magari tra pochi mesi o qualche anno, tornerà dal suo papà. «Quando se ne vanno è faticoso, inutile negarlo. Se ne vanno dei pezzi. Pezzi di vita, di ricordi, di cuore, di famiglia. Perché la famiglia è famiglia, si sta insieme legati da vincoli di amore, non solo di sangue» sussurra, commossa. «Ma se si sa che vanno a stare bene, a fare quel tratto di cammino che ancora manca, è più facile lasciarli andare». Perché l’importante è che questi bambini tornino a sorridere. Proprio come fanno Sasha e Teresa quando mi salutano.

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