Ora sono per tutti “i fratellini di Cuneo” ma fino al 2019 erano ragazzini come tanti. Finché C., che aveva 13 anni, raccontò alla mamma che il padre abusava di lei. Alma Badino denunciò il marito. E da allora fu l’inferno per lei e i suoi quattro figli dai 15 ai 5 anni.

Ogni bambino in una casa famiglia diversa

«Vennero affidati ai nonni paterni nonostante avessero cercato di dire in ogni modo che non volevano stare con loro, tantomeno vedere il padre» racconta Alma. «La convivenza fu difficile, io non potevo andarli a trovare perché secondo il giudice condizionavo il loro rapporto con l’altro genitore, ero una madre “alienante”. Viste le difficoltà, furono tolti dalla casa dei nonni, separati e mandati ciascuno in una casa famiglia diversa. La piccola fu strappata tra le urla dalle braccia della sorella, che svenne, e sistemata in una famiglia affidataria. Passarono i mesi, io non potevo andarli a trovare, con la piccola continuavo a fare una videochiamata protetta, cioè in presenza dell’assistente sociale, ogni 15 giorni, così come il padre. Nel frattempo i grandi, che avevano 15, 13 e 10 anni, mi chiamavano perché erano riusciti a tenere il cellulare: raccontavano di spaccio di pastiglie, promiscuità, cibo scadente e un clima ambiguo. L., 10 anni, cercò di scappare e da quel giorno lo guardarono a vista. I due più grandi fecero uno sciopero della fame, poi lo sciopero della scuola e aprirono una pagina Facebook. I social e la stampa riecheggiarono le loro denunce mentre io presentavo ricorsi continui. Ora i due più grandi sono da poco tornati a casa. La terza ha ottenuto di venire mezza giornata alla settimana e la piccola si trova ancora presso la famiglia affidataria, dove gli adulti si fanno chiamare “mamma e papà”».


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– Le figlie di Alma Badino si rivedono per la prima volta dopo 11 mesi


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Non sono errori giudiziari

Quella dei figli di Alma è forse una delle storie più eclatanti. Ma, purtroppo, una delle tante. Ci siamo già occupati del tema, per scoprire che queste storie sono la punta di un iceberg. Se fino a poco tempo fa si pensava a errori giudiziari, adesso sta venendo alla luce un fenomeno diffuso. Sono centinaia le mamme che raccontano la sottrazione dei loro figli dopo aver denunciato la violenza dei compagni. Bambini molto spesso portati in case famiglia con il divieto di avere contatto con le madri. Oppure, in altri casi, affidati o collocati presso padri addirittura già processati o condannati per maltrattamenti. Possibile? Come può accadere che si producano questi cortocircuiti? «Succede perché le donne nei tribunali non vengono credute e i bambini neppure ascoltati, anche se la legge lo impone dai 12 anni in su e, a seconda dei casi, anche al di sotto» spiega l’avvocata Michela Nacca, che ha fondato l’associazione Maison Antigone, punto di riferimento per le donne in questa condizione. «Alla base di questo ingorgo surreale c’è il principio della bigenitorialità, sancito dalla legge 54 del 2006. Di per sé è legittimo, perché è giusto che entrambi i genitori – anche in una separazione conflittuale – possano stare con i bambini, ma spesso viene applicato in modo cieco, mandando il sistema in tilt: in molti casi, infatti, per garantire che il padre – anche se violento – possa stare con il bambino, i giudici ignorano le denunce presentate dalle madri, anzi le ritengono infondate».

I minori non vengono ascoltati

Se le madri non vengono credute, i figli non vengono ascoltati. Quando i bambini non vogliono vedere il padre, invece che interrogarli e indagarne il motivo, molto spesso viene attribuita alle mamme la “colpa”. «Ma chiediamoci: se ci sono violenze, non necessariamente fisiche ma psicologiche, non è normale che i bambini vogliano stare con la mamma?» continua l’avvocata Nacca. «Invece nei tribunali italiani si applica ancora la cosiddetta “alienazione parentale”, ritenuta infondata ormai da tutta la comunità scientifica internazionale, compresa l’Organizzazione mondiale della Sanità, e appena sconfessata anche dalla Cassazione, con una sentenza storica che la definisce “teoria nazista”. Secondo questo principio, le mamme indurrebbero i figli a rifiutare il padre e perciò i bambini verrebbero loro sottratti. Per i giudici, insomma, il fatto che il bambino rifiuti di vedere il padre diventa la prova dell’azione esercitata su di lui dalla mamma».

La CTU diventa il solo modo per accertare i fatti

Oggi l’alienazione parentale viene definita in tanti modi – madre adesiva, madre assorbente, madre simbiotica, madre malevola – e nonostante, va ribadito, non sia ritenuta scentificamente valida, è usata in giudizio dagli uomini accusati di maltrattamenti per combattere la compagna e ottenere l’affido. Come è possibile? «I giudici, per valutare la capacità genitoriale di entrambi gli adulti, si affidano alle CTU, le consulenze tecniche d’ufficio, senza ascoltare i testimoni e prima di tutto la mamma e i bambini» spiega l’avvocata Michela Nacca. «Le CTU sono pareri di psicologi e neuropsichiatri infantili a cui ormai i tribunali ricorrono sempre più spesso. E così la valutazione psicologica del consulente tecnico diventa il solo modo per accertare i fatti. Questi esperti, sulla base del principio della bigenitorialità e della madre “alienante”, finiscono per essere determinanti nell’allontanamento dei bambini che spesso vengono trasferiti in case famiglia dove rimarranno per mesi o anni».

Le relazioni degli assitenti sociali sostituiscono l’ascolto dei minori

Sta accadendo anche a Lorenzo, 8 anni (il nome è di fantasia per motivi di privacy). La storia, complessa, arriva da Assisi: la madre, che avrebbe subito violenze per anni anche di fronte al bambino, lascia il compagno. Il piccolo vive con lei, ma ogni volta che viene accompagnato dal padre esprime grande sofferenza. «È accaduto anche che si facesse la pipì addosso o svenisse, in presenza del padre e degli assistenti sociali» spiega l’avvocatessa Simona D’Aquilio, che segue il caso. «Qui non si tratta di capricci, come a volte accade, ma di comportamenti gravi, documentati». Oggi, sulla base della relazione di un assistente sociale che ritiene la madre alienante, si è disposto che il bimbo debba andare in una casa famiglia, mentre la mamma, disperata, lancia appelli ai media e alla politica.

La Commissione femminicidio sta studiando 1500 casi

La situazione è talmente esplosiva che se ne sta occupando la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, presieduta dalla senatrice Valeria Valente. «Dopo le segnalazioni, abbiamo deciso di acquisire circa 1.500 fascicoli di separazioni con affido di minori, tra tribunali ordinari e minorili, per capire quanti casi siano stati affrontati in questi anni invocando in maniera errata la cosiddetta alienazione parentale. Lo stereotipo delle donne bugiarde e ostative purtroppo trova ancora spazio nei nostri tribunali» spiega la senatrice Valente. «Inoltre, nel processo civile le consulenze tecniche d’ufficio sono scelte spesso in modo eccessivamente opinabile e discrezionale, senza criteri chiari e trasparenti e indipendentemente da una specifica e comprovata specializzazione dei consulenti: come vengono nominati psicologi e psichiatri che sposano scuole non riconosciute? Perché vengono accreditati dai giudici? Esistono molti modi per cercare la verità senza ricorrere alle consulenze esterne: per esempio ascoltare testimoni, vicini di casa, maestre, per capire come stanno veramente le cose, se siamo di fronte a un uomo violento o se – in assenza di una denuncia penale – esista violenza nel rapporto di coppia e tra padre e figli». Non c’è solo la violenza fisica, ma anche quella psicologica e quella “assistita”, cioè quella esercitata sulla donna a cui il bambino assiste. Sulle circa 100.000 separazioni avviate ogni anno in Italia, 20.000 sono giudiziali, ma tra queste non si conosce il numero dei casi caratterizzati da violenza perché il rilievo non è stato mai effettuato. «Nel processo civile la violenza troppo spesso non trova spazio» sottolinea la senatrice Valente. «Le donne non vengono credute né ascoltate e la violenza viene derubricata, cioè ridotta a semplice conflittualità di coppia che non condiziona il rapporto dell’uomo maltrattante con il figlio. Anche in presenza di denunce per violenza, si tende a pensare che un padre sia sempre un padre e che la sua capacità genitoriale non sia compromessa. È un problema di stereotipi, ma anche di mancanza di formazione e specializzazione nei giudici».

La proposta di legge per introdurre l’ispezione sui servizi sociali

Un primo tentativo per trovare una soluzione al dramma dei figli sottratti alle madri viene da una proposta di legge appena presentata alla Camera, la 2.937. L’autrice, e prima firmataria, è Veronica Giannone, segretario della Commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza e componente della Seconda Commissione Giustizia. «La proposta mette al centro l’interesse del minore, abbassando l’età dell’obbligo d’ascolto a 10 anni e impedendo il ricorso all’alienazione parentale: il giudice non può decretare l’allontanamento del minore per motivazioni che si riferiscano esclusivamente alla “ex PAS”» spiega. Si vuole anche ridurre il potere dei servizi sociali, che è enorme e rischia di generare altri cortocircuiti.
«Sono loro a segnalare per primi i casi di allontanamento dei minori, fornendo relazioni al giudice minorile che, nell’emergenza, colloca in via d’urgenza i bambini fuori dalla famiglia d’origine. Contemporaneamente il giudice incarica gli stessi servizi sociali di approfondire la situazione. La proposta di legge vuole introdurre una figura terza, un ispettore che sorvegli l’operato dei servizi sociali nelle strutture che accolgono i bambini allontanati».

Il sondaggio per raccogliere le testimonianze delle madri

Sul sito e sul profilo Facebook dell’associazione Maison Antigone è disponibile un sondaggio anonimo. «Le tantissime madri che hanno risposto mi hanno anche fornito i documenti processuali, sui quali ho potuto trovare conferma delle loro affermazioni» spiega l’avvocata Michela Nacca. «Ho riscontrato che in un’udienza di separazione e affido del minore, la violenza di un padre non viene considerata “pregiudizievole” o “rilevante”, anche quando rinviato a giudizio o condannato. Insomma, per i giudici molto spesso un padre è sempre un padre e la donna che denuncia “esagera un conflitto di coppia” o lo fa “per allontanare i figli dal marito”, a prescindere dai referti del pronto soccorso».