Come vive un bambino in carcere? Come si disegnano il suo orizzonte, il suo linguaggio, la sua capacità di movimento negli spazi ristretti della cella? Di chi impara a fidarsi, oltre alla madre, alle altre detenute e al personale penitenziario? La vicenda dolorosa accaduta nel carcere di Rebibbia, dove una detenuta ha lanciato dalle scale i suoi due bambini (la piccola è morta e per il fratellino di neanche due anni è stata dichiarata la “morte cerebrale”), ha riportato all’improvviso alla ribalta la condizione dei bimbi tra le mura della prigione.

Le carceri per mamme e bambini

Bambini sui quali ricadono inevitabilmente le scelte delle madri, iperprotetti dalle madri stesse, oppresse dal senso di colpa di doversli tenerli con sé, spesso obbligate dalla povertà o dalla solitudine. «I piccoli che restano in carcere con le madri vivono in strutture obsolete, poco ariose, create per gli uomini e che non sempre hanno la sezione nido, dove le donne rappresentano appena il 5 per cento dei detenuti e dove i bambini fino ai tre anni possono stare per legge quando è la mamma stessa a chiederlo, nel caso in cui non si voglia separare dai figli, oppure non abbia familiari o una casa disposti ad accoglierli» spiega Ornella Favero, direttore della rivista Ristretti Orizzont. «Sono 12 gli istituti carcerari italiani che ospitano i piccoli – alcuni con veri nidi, cioè spazi attrezzati ad hoc – e in cinque casi si stratta di Icam (Istituti a Custodia attenuata per detenute Madri), cioè carceri più simili a case che a luoghi di detenzione, previste dalla legge ma finora realizzate solo in parte» prosegue. «Qui la convivenza tra donne e bambini è comunque forzata e con ritmi imposti dalle regole del carcere, ma resta più umana che nel carcere vero e proprio, dove mamme e detenute comuni sono mischiate e dove i tempi degli adulti, il rumore e la tensione dovuta al poco spazio condizionano pesantemente la crescita dei bambini».

Cortili e cancelli, orari e chiavi

Colpevoli di nulla, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra porte blindate e sbarre, in una sezione dove il cancello della cella resta aperto ma da cui, per uscire, si devono attraversare altre porte blindate e cancelli con altre sbarre. Un orizzonte cintato, oltre il quale non c’è scoperta, avventura, sorpresa. Perché finisce lì. «Di solito c’è un cortile o un giardino interno attrezzato con i giochi per i bambini, ma vi si accede a orari determinati e sempre con chiavi e cancelli, delimitato da muri spesso grigi, in cemento. Dove ci sono solo donne e gli unici uomini sono agenti in divisa, dove mancano figure maschili di riferimento e gli scambi sociali sono limitati alle detenute e ai loro figli, al personale penitenziario e ai volontari, se ci sono. Dove spesso le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione» dice Ornella Favero.

Un legame strettissimo

Il tempo per queste mamme è un tiranno, non perché ne abbiano poco (come accade nella routine di tutte le mamme), ma perché è tutto ciò che hanno da offrire ai loro bambini. E i bambini hanno “solo” loro, l’unica figura di riferimento. Ed ecco che il legame tra i due diventa strettissimo, dove i chiaroscuri propri del binomio mamma-figlio qui prendono tinte forti, sulla spinta dei sensi di colpa, del rifiuto o, al contrario, di un’accettazione passiva. Fino al compimento del terzo anno, quando all’improvviso il legame si deve recidere. E purtroppo in genere i tempi e i modi di questa lacerazione sono frettolosi: la mamma viene allontanata con un pretesto e al suo ritorno il bambino non c’è più. «Ho visto scene di disperazione, donne che si sono ferite e tagliate» racconta Luigi Gariglio, sociologo all’Università di Torino e fotografo, autore della mostra “Che ci faccio qui? I bambini nelle carceri italiane”, ora esposta al Crvg di Torino (Conferenza Regionale Volontariato Giustizia). «Come ho visto bambini incapaci di capire perché vengono portati via dall’ambiente in cui hanno sempre vissuto, l’unico che conoscono, per entrare in una vita “normale”, ma non per loro, cresciuti in prigione».

I fratelli che restano fuori

Anche il colloquio con i fratelli arrivati da fuori con un familiare (quando c’è), apre ferite sempre fresche, che si rinnovano a ogni visita: i piccoli non capiscono perché a un centro punto loro devono restare dentro mentre gli altri familiari se ne vanno. L’arrivo dei volontari, preziosissimi, apre uno spiraglio di libertà e normalità. Gariglio racconta che ogni volta in cui entra nel carcere, i bambini lo prendono per mano per uscire: «Portami fuori» gli dicono. Ma fuori non si può andare. «Frequento le carceri da 28 anni – racconta – e il ricordo che più ho impresso, è un bambino che a poco meno di tre anni diceva solo: “Chiudi il blindo” e per lui i maschi erano tutti agenti. Oppure quel bambino che per gioco spezzava le sigarette, mentre la mamma lo guardava sorridendo, senza riuscire a sgridarlo». Perché crescere un bimbo tra le mura del carcere vuol dire tirarlo su a sensi di colpa e non poter essere autorevole: la madre perde la sua credibilità, in balìa lei stessa delle regole del carcere, incapace di stabilirne di proprie e soprattutto invasa dal senso di inadeguatezza.

A tre anni, la separazione: e dopo?

La cella con la mamma non è la soluzione al problema dei bambini delle detenute. «Anzi, la separazione dopo i tre anni crea disagi psicologici e problemi di crescita: i bambini, affidati a famiglie adottive o in carico ai servizi sociali, sono spesso deprivati di tutto il contatto fisico di cui avrebbero bisogno per conquistare fiducia e sicurezza e tendono a vivere la separazione come un abbandono. Ricerche dimostrano come si ammalino, arrivando spesso anche a morire» racconta Ornella Favero.

Le case famiglia protette, gestite da associazioni, volontari, parrocchie, sembrano invece l’alternativa più adatta, anche se a tutt’oggi insufficienti a ospitare tutti i bambini con le loro mamme. «La mamma resta dentro a espiare la sua pena, ma il bambino può uscire, andare al nido o a scuola, accompagnato dai volontari» spiega l’avvocato Mario Marcuz dell’associazione Antigone Emilia Romagna. «Anche se i volontari sono figure esterne, diverse dalla mamma, che quindi agli occhi del bambino conserva un raggio d’azione sempre limitato, offrono un’accoglienza e un sostegno che possono far crescere i piccoli in un clima più equilibrato e familiare. La realtà dei bimbi in carcere non deve indurci al pietismo, ma si può risolvere ampliando il ricorso a misure alternative che permettano alle detenute madri di scontare la pena insieme ai figli in contesti familiari, salvaguardando il proprio ruolo genitoriale e lo sviluppo del bambino nei primi anni della sua vita». La pena, dunque, resta mprescindibile, ma dev’essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore.