Barbara Palombelli, dopo le parole a Forum in cui parlava di «possibile comportamento esasperante» delle donne vittime di femminicidio, si è scusata a Quarto grado: «Non esiste nessuna rabbia, nessun comportamento che possa giustificare il femminicidio. Chiedo scusa se non era chiaro abbastanza». Su Facebook poi denuncia di essere «stata vittima di una diffamazione senza precedenti» e che «Tutti coloro che si sono resi protagonisti di questa palese falsità ne risponderanno in tribunale». Tutto ciò è lecito. E conclude: «Continuerò a porre domande, anche scomode, perché è il mio mestiere».
La violenza non va affrontata in format tv che banalizzano
E qui sta il punto. La sua domanda non era scomoda. Purtroppo è la domanda che si fa la maggior parte delle persone di fronte alla violenza contro le donne e al femminicidio. Ed è una domanda che rivela quanto sia diffusa e profonda la cultura dell’attenuante, anche tra i giornalisti, anche tra le donne. Ma la magistrata Paola Di Nicola, consulente giuridica della Commissione sul femminicidio al Senato, ci dice in realtà che «Quella della tolleranza e della giustificazione è una non-cultura ed esiste in qualsiasi ambito e livello, sociale e culturale. Quando si parla di violenza contro le donne – precisa – bisogna parlarne non in trasmissioni contenitore in cui si mostrano moglie e marito che litigano tra loro in una relazione tra pari. In questo modo, al di là delle parole di chi interviene, si dà un messaggio sbagliato che porta all’attenuazione della violenza. In pratica si dice a chi guarda che lì ci sono due persone che litigano alla pari in una relazione normale, in cui alla fine una, che è l’uomo, poi perde la testa e uccide perché esasperato».
Tutto ridotto a una discussione da bar, come per il covid
È questo il primo messaggio sbagliato. «Non vedo mai in prima serata trasmissioni sui reati di violenza contro le donne o il femminicidio. Questo, semmai, è relegato in format di altro genere, basati sull’equivoco dell’”amore criminale”. Se è criminale, come fa a essere amore? In trasmissioni come Forum non abbiamo a che fare con esperti della materia che parlino del problema a partire dalle sue radici culturali, ma si affronta il tema come una discussione da bar, come per il covid e il vaccino. Bisogna invece chiamare esperti del settore che non attenuino ma spieghino».
La cosiddetta esasperazione è solo un esercizio di potere
La prima cosa da spiegare è che sotto alla cosiddetta esasperazione c’è un esercizio di potere. E bisogna farlo prima di tutto nelle scuole. «Bisogna far capire ai giovani che non esiste più il pater familias a cui si rompe il giocattolo quando lei decide di separarsi, esercitando un atto di libertà. Pensare che un uomo “fa una strage” perché crede nella famiglia e lei, andandosene, ha distrutto il suo mondo, è un paradosso. Il fatto è che quell’uomo non trova più in quel contesto familiare il luogo privilegiato del potere e non ritiene la donna un essere degno di un gesto di libertà. Dobbiamo capire che qui non parliamo di normalità ma di relazioni di potere, in cui non si riconosce alla donna un diritto minimo, quello di dire No e andarsene».
Anche i giudici applicano le attenuanti nelle sentenze
Le relazioni in cui si esercita la violenza, che può culminare col femminicidio, sono relazioni di potere diseguali. «Gli uomini nella nostra cultura non si sentono riconosciuti se non esercitano potere. Quando il potere viene meno, perché la donna vuole andarsene, l’uomo lo ripristina uccidendo, spesso anche i figli». In una relazione normale chiunque può scegliere di andare via. Quando si è di fronte a uomini che agiscono violenza, si parla di una cosa diversa. «Intanto è un reato e questo a volte non è chiaro. Invece le responsabilità vanno precisate. Se una donna che si è separata è stata poi uccisa, chiediamoci perché ha chiesto la separazione, indaghiamo su quando c’è stata la violenza invece di chiederci cos’ha fatto lei per arrivare a questo. Il problema è che spostiamo sempre la responsabilità sulla donna, su cosa ha fatto e non ha fatto, sulle sue scelte». Questo accade a tutti i livelli, perfino nella magistratura. «I giudici sono lo specchio della società. Se nella società esiste tolleranza e sottovalutazione, questo entra nel processo». La giudice ha scritto il libro La mia parola contro la sua, in cui esamina più di 200 sentenze dimostrando come il pregiudizio contro le donne condizioni i processi per violenza. Secondo una ricerca del Ministero della Giustizia del 2014, nel 70 per cento delle sentenze di femminicidio vengono concesse le attenuanti. Il giudice per primo, quindi, si chiede quale esagerazione e aggressione ci sia stata dall’altra parte. La parte lesa, ferita, morta. «Finché non ci sarà una formazione adeguata di giudici, poliziotti, operatori, tutti, la violenza sarà sempre ridimensionata e ricondotta a una lite familiare».