Lo avvertiamo ogni giorno di più: dopo un anno di lavoro in pandemia, siamo stanchi, disorientati, preoccupati per il futuro, tanto che anche riuscire a mantenere il nostro impiego può apparire un traguardo già parecchio ambizioso. E non è solo una sensazione, strisciante o evidente, che proviamo sulla nostra pelle e notiamo in chi ci sta vicino.
Gli ultimi dati dello Stressometro, la ricerca settimanale condotta dall’Istituto Piepoli per l’Ordine degli Psicologi, rileva che il 61% degli italiani presenta gravi sintomi da stress. Eppure è in situazioni di crisi acute che occorre individuare le cause di disagio e attivare al meglio gli strumenti che portino al benessere in tutte le sue declinazioni: fisica, psicologica e sociale. Un principio che vale sia per gli smart worker sia per chi va in ufficio.
Ne abbiamo parlato con 3 esperti che si occupano di questo tema da angolature e con sguardi diversi. Tutti, però, partono da un presupposto: l’azienda deve far sì che io possa lavorare nelle migliori condizioni possibili, ma poi spetta a me contribuire a promuovere il benessere mio e delle persone che con me lavorano.
Accettiamo l’incertezza
Alessandro de Carlo, docente di Psicologia del lavoro all’ateneo di Padova, all’università telematica Giustino Fortunato e alla Psiop, scuola di specializzazione in psicoterapia che forma i Chief Mental Health Officer
«Negli ultimi anni pareva che promuovere il benessere in azienda coincidesse con il collocare in ufficio un’amaca e un tavolo da ping pong attorno a cui magari fare anche le riunioni. Il Covid ci ha catapultati invece in un’epoca per niente giocosa. Un’epoca austera che chiede concretezza e ci obbliga a fare i conti con l’incertezza, un’emozione che fatichiamo a maneggiare. Il motivo? In Italia e nel mondo occidentale in generale abbiamo vissuto un lungo periodo di pace e prosperità, ma è stata un’eccezione. L’incertezza in realtà è la condizione fisiologica dell’umanità e l’umanità finora ce l’ha sempre fatta, più o meno bene. Per non lasciarci travolgere dal disorientamento occorre accettare che ci siano cose al di fuori del nostro controllo; così possiamo iniziare a gestire gli aspetti della nostra realtà che siamo in grado di governare, anziché disperdere energie per quelli su cui non possiamo intervenire. Penso al blocco dei licenziamenti. Nessuno ora sa quando verrà tolto e cosa davvero succederà, forse neppure Draghi. Se mi fisso con il pensiero sul rischio di essere licenziato, non faccio più niente. L’ansia che deriva dall’incertezza rispetto al futuro accomuna gli smart worker e chi opera fisicamente in azienda. Ognuno di loro ha poi fonti di stress specifiche: chi va in azienda teme il contagio, mentre gli smart worker rischiano di soffrire per il senso di isolamento e la difficoltà di conciliare vita familiare e vita professionale. Che fare quindi? Chi ha paura di contrarre il virus deve ricordare che molte delle paure che abbiamo oggi si sono solidificate quando non si sapeva niente del Covid. Io a marzo 2020 ho lavorato con i medici e gli infermieri nell’ospedale vicino a Vo’ Euganeo, dove c’ è stato il primo morto da Covid. In quelle situazioni c’era da essere davvero preoccupati: non si avevano informazioni su come si propagasse il virus. Ma le conoscenze progrediscono e ora abbiamo una maggiore capacità di gestione delle criticità: le stesse aziende sono molto più attrezzate sul fronte prevenzione. La paura del contagio sul luogo di lavoro va ridimensionata così come va rimodulata la nostra visione dello smart working d’emergenza. Ricordiamoci che stiamo vivendo una situazione che è complessa e dura da tanto, però è temporanea. Vero che nessuno sa di preciso quando finirà, ma le prospettive aperte dai vaccini e l’evoluzione della normativa sullo smart working, a cominciare dal settore pubblico, mostrano che le cose stanno cambiando. Quelli che suggerisco non vanno visti come tanti, ulteriori sforzi dopo un anno così impervio, ma come investimenti: saper coltivare la pazienza e convivere con l’incertezza sono competenze emotive che mi saranno utili tutta la vita».
Impariamo a coltivare la fiducia
Elisabetta dalla Valle, autrice di Tutta questione di benessere (Licosia) e cofondatrice dell’Osservatorio italiano sulla felicità
«Parto da un concetto cruciale: la felicità non è un’emozione volatile che si conquista con il denaro, bensì una competenza che va coltivata. E dobbiamo capire che non ci piove dall’alto, ma a fare la prima mossa verso una condizione di maggior benessere nostro e dei colleghi dobbiamo essere proprio noi. Anche piccoli gesti possono avere un grande impatto. Prendiamoci 2 minuti prima di ogni riunione virtuale per chiederci tra colleghi come stiamo. È un lasciare spazio all’empatia pur dentro il ritmo tambureggiante delle videocall. Soprattutto occorre coltivare la fiducia: il capo deve fidarsi del fatto che io da remoto lavoro, io mi fido del collega che incontro in ufficio perché ci sono regole di sicurezza per la prevenzione dei contagi che tutti dobbiamo rispettare. Fiducia negli altri vuol dire anche toglierci la “maschera” con cui troppo spesso in passato siamo andati al lavoro: ci hanno fatto credere che dovevamo mostrarci sempre scevri da errori, inappuntabili, performanti, perfetti. Invece ognuno di noi ha le proprie fragilità. Perché, ora che ci siamo trovati tutti inermi di fronte a un nemico immane, non dovremmo avere il coraggio di chiedere aiuto e di mostrare le nostre insicurezze? Se tutti teniamo la mascherina ma tiriamo giù la “maschera”, possiamo riavvicinarci e prenderci cura gli uni degli altri, per far sì che ogni persona sia messa in grado di essere l’unicità che è. La fiducia è anche carburante di nuove forme di aggregazione. In questo periodo vedo nascere in alcune aziende delle community, che per esempio creano delle biblioteche virtuali oppure programmano attività di volontariato per il futuro. Queste iniziative producono un doppio, benefico effetto: rinsaldano relazioni, dandoci un ancoraggio positivo all’0ggi, e ci proiettano in modo costruttivo verso il domani».
Gestiamo bene il tempo
Debora de Nuzzo, consulente e formatrice in tema di Benessere organizzativo e smart working, fondatrice di DDNstudio
«Le difficoltà legate alla pandemia si sono fatte sentire per tutti, ma non si deve pensare che chi prima in ufficio era più timido abbia subito le conseguenze peggiori. Ho notato che spesso sono state le personalità più forti quelle più colpite. La ragione? In una situazione così inedita la sicurezza nei propri mezzi e nelle proprie capacità è improvvisamente venuta meno lasciando posto alla confusione e all’anergia, cioè all’impossibilità di canalizzare in modo efficace gli sforzi. Il consiglio valido per tutti è di gestire meglio e al meglio il tempo. Si può farlo non lasciandosi fagocitare da quella voce interna che dice: “Mi sento in dovere di…”. Attenzione: non suggerisco di non lavorare! Ma io che come formatrice seguo molti smart worker vedo che in tanti si privano del piacere di una passeggiata, perché temono che il capo li chiami o, peggio ancora, pranzano davanti al computer. Qui l’inghippo sta nel fatto che con il proprio superiore e i colleghi non sono stati distinti i tempi di lavoro sincrono da quello asincrono: nel primo caso dobbiamo essere presenti anche solo online insieme agli altri, per esempio per partecipare alle riunioni; nel secondo caso ognuno può eseguire i compiti di sua competenza entro il tempo richiesto, ma nei tempi che preferisce. Fare questo passaggio mentale significa lavorare in modo più rilassato e, ora che già lo spazio a disposizione è contratto, poter disporre più liberamente del tempo. Servono quindi educazione e formazione al vero smart working. Imparare a non sovrapporre i due tempi di lavoro, ma anche i tempi di lavoro con quelli della vita privata, accresce la lucidità. Perché così, di fronte ai problemi, riesco a prendermi il mio tempo per chiedermi: “Cosa posso fare io ora?”. Magari non si trova la soluzione a tutto. Di certo, però, rispetto al cercare di posticipare (“Me ne occuperò quando il Covid sarà passato”) o delegare (“Perché non ci pensa il mio capo?”) è un segnale di vitalità. Una sensazione di cui oggi più che mai abbiamo grandemente bisogno».
→ Il barometro della felicità sul lavoro
Si chiama così la prima ricerca, appena pubblicata dall’Osservatorio italiano sulla felicità, che monitora il benessere dei lavoratori italiani. Sono stati sentiti sia dipendenti sia liberi professionisti.
Tra i tanti dati, uno colpisce in modo particolare e riguarda le donne: 4 su 10 (il 39%) dicono di apparire felici agli occhi degli altri, ma meno di 3 su 10 (il 26%) si sentono davvero tali. Lo scarto tra la felicità mostrata e quella provata c’è anche tra gli uomini, ma minore: 36% contro 31%.
«In questa pandemia le più colpite come mole di lavoro sono state le donne, perché lo smart working-lavoro da remoto si è sommato ai diversi carichi di cura e familiari» nota Elisabetta Dallavalle, cofondatrice dell’Osservatorio. «Occorre approfondire per capire bene le ragioni dello scarto tra i 2 dati, la felicità mostrata e quella sentita, e impegnarci per un cambio culturale che preveda, tra l’altro, aiuti e supporti per tutti quelli, donne e uomini, impegnati in attività di cura».