Ventisette anni fa: il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Fu uno dei principali eventi storici che segnò il Novecento e ne seguì caduta dei regimi comunisti.
Venne costruito nel 1961 per fermare il passaggio di berlinesi dell’Est verso l’Ovest, attratti dalle migliori condizioni di vita che c’erano dall’altra parte.
Berlino Ovest era una sorta di enclave occidentale dentro la Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, Stato sotto l’area di influenza sovietica. In quella notte, dopo 28 anni, il simbolo della divisione del mondo in due blocchi contrapposti era stato abbattuto per sempre. L’evento aprì la strada alla riunificazione delle due Germanie, processo che si chiuse formalmente il 3 ottobre 1990.
Quale eredità ci ha lasciato il Muro di Berlino?
Quasi 160 chilometri di cemento e filo spinato, posti di guardia con cecchini armati, bunker e quella “striscia della morte”, dove tra il 1961 e il 1989 oltre 130 persone rimasero uccise mentre cercavano di fuggire verso ovest. Questo è stato anche il Muro. E i suoi equlibri geopolitici ne sono usciti ridisegnati. Ne seguì una espansione dell’Occidente verso l’Oriente: molti di quegli stati satelliti controllati da regimi comunisti e fedeli all’Unione Sovietica entreranno nell’Unione Europea e nella Nato, l’Alleanza del patto atlantico. La Germania ha dovuto avviare un doppio processo di integrazione: uno interno, con il risanamento economico delle regioni ex Ddr e il loro inserimento in una più ampia Germania filo-occidentale. E uno esterno, legato all’Ue. Il primo riesce con duri sacrifici e molte rinunce; il secondo, riesce in parte. La Germania diventa il locomotore del Vecchio Continente, spesso imponendo la sua linea agli altri Paesi soprattutto sul fronte economico. E per questo attirandosi le antipatie degli altri paesi dell’Unione Europea. Il muro di Berlino non è stato un caso isolato. Oggi ne abbiamo altri, di muri. Serviranno?
I nuovi muri anti-migranti in Europa
L’Ungheria oggi è una delle principali frontiere su cui i profughi asiatici e africani premono per entrare in Europa. Da qui la decisione di alzare un muro: 175 chilometri ai confini con la Serbia, terra di transito dei disperati che vogliono raggiungere l’Unione europea. «Proteggere un Paese è del tutto legale, ma farlo in questo modo rischia di creare tensioni con i vicini» dice Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano. «Belgrado si ritroverà nel proprio territorio persone senza documenti, che non riescono a entrare in Ungheria».
Anche la Bulgaria ha costruito una barriera antimigranti ai confini con la Turchia. Da una parte c’è l’area di Bruxelles, dall’altra un grande Paese islamico. «Un muro sembra la soluzione più ovvia, perché riduce gli ingressi illegali. Ma il problema dell’immigrazione in Europa non si risolve con il filo spinato: l’effetto è che i flussi di persone si spostano verso altre nazioni» commenta Gianluca Pastori, docente di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa all’università Cattolica di Milano.
I muri in Messico e in Marocco
È una barriera lunga 930 chilometri che va dalla California al Texas: la separazione tra Stati Uniti e Messico viene spesso citata per dimostrare l’efficacia di queste scelte. Apparentemente raggiunge lo scopo. «Nel 1996 entravano negli Usa 1 milione e mezzo di migranti all’anno. Nel 2011 si è scesi a 350.000» dice Matteo Villa dell’Ispi. «Il muro piace ai politici: costa poco e dà l’idea che le autorità affrontino le emergenze» spiega Pastori della Cattolica di Milano. «Eppure anche qui non si è trovata la soluzione definitiva. Il problema è stato ridotto, non superato. E per una persona fermata ai controlli, 10 entrano illegalmente». Non solo. «A causa delle barriere, i pericoli per gli immigrati aumentano. Tra il 1994 e il 2007 sono morti circa 5.000 disperati che tentavano di raggiungere gli Stati Uniti. Perdono la vita nel deserto. O chiusi nei bagagliai delle auto» nota Villa.
C’è desolazione anche nel Mediterraneo. Per esempio a Ceuta e Melilla, le città autonome spagnole sulla costa marocchina. «Ovunque si guardi, si vedono le alte recinzioni di filo spinato alla frontiera» racconta Alice Pasquini, street artist italiana che ha realizzato dei graffiti a Melilla. «Nella parte europea incontri mendicanti che hanno superato il confine e vivono senza nulla. Mentre le donne marocchine si caricano enormi mucchi di merce sulle spalle perché in modo non pagano i dazi per il trasporto».
I muri in Israele e Tunisia
«Ci sono muri nati contro il terrorismo» sottolinea Pastori. Il più noto è quello costruito da Israele per bloccare l’arrivo di kamikaze palestinesi durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005. «Da quando è stato realizzato, le vittime sono diminuite: da 400 nel 2001 a 70 nel 2003. Oggi gli attacchi sono rari» spiega Villa dell’Ispi. «Questa barriera di quasi 700 chilometri, però, ha segregato la popolazione» racconta Luigi Bisceglia, rappresentante dell’ong Vis in Palestina. «Gli arabi della Cisgiordania che vogliono andare a Gerusalemme, distante 8 chilometri, fanno lunghissime code ogni mattina: per essere al lavoro alle 8 devono uscire di casa alle 4».
A Gaza la situazione è peggiore. «La Striscia è un carcere a cielo aperto circondato dal filo spinato: attraverso il muro passa tutto quel che serve alla gente, dalla benzina ai farmaci» dice il videomaker e fotoreporter italiano Valerio Nicolosi, docente all’università locale. La Tunisia ha seguito l’esempio di Gerusalemme, dopo gli attentati terroristici al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. «Il governo sta costruendo una barriera di 168 chilometri al confine con la Libia, dove ci sono campi di addestramento per fondamentalisti islamici» dice Villa. Ma c’è un limite. «Il muro non ferma i terroristi. Per disarmare il terrorismo bisogna fare più controlli e indagini di polizia. Non solo mettere filo spinato».