Non è certo la prima volta che Tale e Quale Show, il programma condotto da Carlo Conti su Rai1, finisce al centro delle polemiche per via dell’uso della cosiddetta “blackface”, ovvero quella pratica per cui persone con la pelle bianca si truccano la faccia di nero per imitare persone nere. Nell’ottobre del 2019 lo aveva fatto Roberta Buonanno nel suo “omaggio” a Beyoncé, provocando accesissime reazioni social, mentre la scorsa settimana è stata la volta del comico Francesco Paolantoni, che si è truccato da James Brown. Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è stato accusato di blackface, quando ha ricondiviso sui suoi profili ufficiali una serie di immagini satiriche che lo accostavano a grandi personalità nere per via della sua abbronzatura, post che poi, dopo le segnalazioni e il dibattito che ne è seguito, sono state cancellati.
L’ultimo episodio di razzismo casuale in tv, invece, riguarda un altro appellativo molto offensivo: durante il Grande Fratello Vip, il cantante Fausto Leali ha chiamato infatti “negro” Enock Barwuah, il fratello di Mario Balotelli, senza apparentemente realizzare la gravità della parola né la connotazione negativa che si porta dietro. «Non usare quella parola. Non devi. Se dici una cosa del genere vuol dire che sei abituato a dirlo: noi ci battiamo per i diritti e questo non lo tollero. Siamo in tv, ci guardano, certi messaggi non possono passare perché nessuno da casa deve sentirsi giustificato a utilizzare certi termini», ha replicato Barwuah tra il gelo degli altri concorrenti. Leali è stato quindi espulso dal programma, ma la polemica non si è spenta.
Che cos’è la blackface e perché è offensiva
Di per sé, potrebbe sembrare una pratica innocua, finanche un simbolo di apprezzamento verso gli artisti citati, ma la blackface ha una storia che si è legata a doppio mandato alle discriminazioni subite dalle popolazioni afrodiscendenti nei Paesi occidentali, soprattutto in America, che non può essere ignorata in un momento come quello che viviamo oggi – basti pensare alle proteste di Black Lives Matter o all’omicidio di Willy Duarte Monteiro – tanto più in un contesto televisivo (e di servizio pubblico!). Si definisce blackface uno stile di makeup teatrale, diffuso nel XIX secolo, che consiste nel truccarsi in modo marcatamente non realistico per assumere le sembianze stilizzate e stereotipate di una persona nera. L’utilizzo della blackface si è gradualmente conclusa negli Stati Uniti con il Movimento per i diritti civili degli afroamericani di Martin Luther King, che ne denunciò i preconcetti razzisti e denigratori negli anni Sessanta. Insomma, è di cattivo gusto e rimanda a un periodo storico in cui le persone nere venivano perseguitate proprio per via del colore della loro pelle.
Tornando in Italia, non regge la scusa che l’intento denigratorio della pratica non appartiene alla nostra cultura, vista che da noi non c’è stata né la schiavitù né la segregazione razziale. Come ha fatto notare la scrittrice italo-somala Igiaba Scego, che ha scritto un post molto condiviso su Facebook, questo atteggiamento deriva da una sorta di dimenticanza rispetto al nostro passato coloniale. «I meme sull’abbronzatura di Di Maio sono razzisti, punto. Schifosi, punto. Giocano con la blackface e sottotraccia c’è l’idea del nero come colore inferiorizzante e dei neri/e come inferiori. Conosciamo bene questa storia. Sono meme che offendono noi neri e nere. Il ministro avrebbe dovuto ignorare o se rispondere sottolineare il razzismo insito nella pratica. Invece cosa dice? Mi avete alleggerito la giornata. Manca una seria decolonizzazione della cultura politica di questo Paese». Si tratta perciò di dimostrare una sensibilità culturale aggiornata e di riformulare il linguaggio attorno a questi temi, soprattutto perché le generazioni future non ereditino i difetti di quelle passate. Che esempio stiamo dando nel momento in cui costringiamo le persone non bianche in stereotipi falsi e dannosi? Eppure gli italiani, popolo di emigranti, dovrebbero sapere cosa significa essere discriminati.
L’importanza delle parole
Lo stesso dicasi per la parola usata da Leali, che si è giustificato dicendo che «il nero è un colore, negro è una razza». L’affermazione, com’è facile intuire, non è scientificamente fondata, in quanto le popolazioni umane non sono divise per razza come quelle del mondo animale, semmai per etnia, ma dimostra bene l’ignoranza che esiste attorno al tema. Le intenzioni possono anche non essere offensive o denigratorie, ma ciononostante le parole rimangono importanti, per parafrasare una celebre battuta di Nanni Moretti, hanno un significato storico e rimandano a determinati contesti che non è possibile ignorare, anche quando si ritiene di avere la migliore delle intenzioni. Così, quella parola è un insulto per molte persone e sarebbe meglio che le persone bianche non la usassero, perché non possono prevedere che effetto potrebbe avere sull’interlocutore di turno. Negli Stati Uniti, molti giornali hanno iniziato a non scrivere l’equivalente inglese e la chiamano “N-word” (letteralmente “parola che inizia con la n”, che sta per “nigga” o “nigger”) proprio per invitare a riflettere sul passato razzista a cui rimanda. A noi queste potranno sembrare sottigliezze linguistiche all’americana, ma di fronte al pressappochismo della nostra tv qualche domanda dovremmo farcela: siamo sicuri che non ci sia niente da cambiare?