In Italia sono circa 230.000 gli occupati irregolari in agricoltura, di cui 55.000 donne. Il dato è del VI Rapporto agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che indaga i legami tra filiera alimentare e criminalità. In Regioni ad alta vocazione contadina come Lazio, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, i numeri dello sfruttamento raggiungono percentuali del 40% ma i tassi sono importanti anche nel Centro-Nord: oscillano tra il 20 e il 30%. Li conferma l’indagine condotta dalla Guardia di Finanza dopo la morte di Satnam Singh, il bracciante lasciato morire dissanguato dal suo datore di lavoro a Latina: sulle 310 aziende controllate in un giorno, ben 206 sono risultate irregolari, quasi sette su dieci.

Il traffico di braccianti

«Uomini e donne vengono reclutati allo stesso modo, con un sistema che sfrutta a suo vantaggio la Legge Bossi-Fini del 2002 e i Decreti flussi». Lo spiega Marco Omizzolo, sociologo Eurispes e autore di Per Motivi di Giustizia (People Editore). La prima vincola il permesso di soggiorno a un contratto. I secondi sono invece atti amministrativi che stabiliscono un tetto massimo annuo di extracomunitari che possono entrare in Italia a scopi lavorativi. Ma i contratti spesso sono inesistenti, come le aziende che li stipulano.

«I trafficanti stranieri, in associazione con imprenditori criminali, reclutano un futuro bracciante nel Paese d’origine, gli fanno pagare cifre astronomiche per portarlo in Italia e lo inseriscono nel sistema quote del ministero dell’Interno» prosegue l’esperto. «Una volta arrivato, il bracciante lavora alle condizioni più convenienti per il datore di lavoro. È un sistema di tratta organizzato e paradossalmente coperto, perché i trafficanti usano a loro vantaggio le contraddizioni della legge. Lo sfruttamento, così, è managerializzato in maniera sistematica ed evoluta. Non è solo l’espressione brutale legata a un gruppo di criminali, perché oltre ai trafficanti sono responsabili i datori di lavoro, i loro avvocati e commercialisti, e c’è anche la responsabilità politica di tutti i governi degli ultimi anni».

Le donne braccianti

Le donne braccianti sono le lavoratrici più penalizzate, perché allo sfruttamento e alle paghe minime si aggiungono violenze, ricatti e difficoltà nel bilanciare un lavoro fortemente usurante con la cura della famiglia. «Sono in Italia dal 2007 e ho iniziato a lavorare in un’azienda agricola nel 2009» spiega Akila, raggiunta tramite l’associazione no-profit WeWorld, attiva in diversi progetti a favore di chi è in difficoltà (www.weworld.it). Al posto di aumentare, i compensi sono diminuiti nel corso del tempo. «All’inizio davano 6 euro e qualche centesimo all’ora, adesso 4 o anche meno per 14 ore al giorno. Volevo denunciare, ma per paura di perdere il lavoro alla fine non ho fatto niente. Una volta ho lavorato per cinque mesi e ho avuto solo 300 euro. Dicevano che saremmo state pagate il mese successivo, ma sono passati due anni» spiega Akila.

Oltre allo sfruttamento: gli abusi

Lo schema è rodato. «Viene imposto dal datore di lavoro e consolidato dal caporale» prosegue Omizzolo. «I primi a essere retribuiti sono i lavoratori uomini italiani, poi seguono gli uomini stranieri, le donne italiane e le donne straniere». Lo sfruttamento nei campi non è però solo legato alle paghe. «Quando vengono caricate sui furgoni, alle donne va il posto meno comodo e più pericoloso in caso di incidenti. Sono stati rilevati addirittura casi di aborti procurati dalle condizioni di lavoro estreme. Nei magazzini, ad esempio, si sta in piedi tutto il giorno con le mani nelle vasche di acqua ghiacciata per lavare gli ortaggi».

Alla fatica si sommano gli abusi, come succede alle rumene vittime di traffico internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e sessuale nella zona di Vittoria, in Sicilia. «Vengono obbligate a esibirsi e a ballare seminude nei ruderi, circondate da stranieri e italiani, che poi le violentano: li chiamano “i festini del padrone“, che portano a gravidanze indesiderate e aborti» racconta Omizzolo.

Tra precarietà, angoscia e solitudine

Le donne, d’altronde, sono considerate fragili e per questo sempre ben disposte, specie se straniere, con poca dimestichezza con la lingua e con le leggi del Paese ospitante. Hanno paura sì ma non solo degli abusi. «C’è la paura di non farcela, di non sopravvivere, e non è solo una questione fisica ma anche mentale» spiega la dottoressa Annarita Del Vecchio, psicologa a Brindisi e consulente per il Progetto Bright del programma Cambia Terra di ActionAid, finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle braccianti.

«Sono sole e isolate, temono di non riuscire a mantenere le famiglie e di non poter garantire un futuro ai figli». Un’angoscia quotidiana, motivata dalle loro condizioni di vita e di lavoro. «Si svegliano alle 3 per raggiungere i campi, ma non sanno se lavoreranno o meno. La giornata può saltare per il maltempo e in quel caso sarà una giornata non retribuita». E per le lavoratrici regolari c’è anche l’ultima beffa: il timore di non raggiungere gli anni necessari per la pensione: «Molte, dopo aver lavorato duramente, arrivano vicine all’età del pensionamento, ma senza i contributi necessari».

Chi resta al fianco delle braccianti

Per donne costrette in condizioni così estreme è difficile denunciare, ma soprattutto fidarsi. Ecco perché servono dei ponti tra le lavoratrici e le istituzioni. Actionaid, per esempio, lavora con enti pubblici e sindacati per accompagnarle in un percorso di empowerment. Si favorisce la formazione delle leader di comunità, donne che informano e aiutano le altre. Un sistema che in Calabria ha portato alla nascita della Cittadella della Condivisione, presidio diventato essenziale per l’accesso ai servizi (www.labsus.org). A Ragusa, invece, la Cooperativa Proxima offre un’alternativa a chi ha vissuto il peggio. Nel 2017 sono nati l’Orto e la Sartoria Sociale, in cui lavorano le vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo, in sinergia con il Comune e con il ministero delle Pari Opportunità (www.proximarg.org). A Ragusa c’è anche il Centro di accoglienza spirito santo, fondato da don Beniamino Sacco, il primo a denunciare gli abusi sulle lavoratrici rumene (www.diocesidiragusa.it). Gocce nel mare, ma qualcosa si muove.