Sulla Brexit regna il caos. Il Parlamento inglese ha bocciato la bozza di accordo con l’Ue siglata a fatica dalla premier Theresa May (che si è salvata dalla sfiducia per soli 20 voti). «Adesso si apre un nuovo giro di negoziati, che probabilmente dilaterà ancora i tempi» spiega Antonio Villafranca, coordinatore della ricerca dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano.
Resta il problema dell’Irlanda
Londra e Bruxelles si erano impegnate a definire entro il 2020 le reciproche relazioni commerciali, ma intanto sarebbe rimasta in piedi l’unione doganale, compreso il “confine aperto” tra l’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e la Repubblica d’Irlanda (Stato membro dell’Ue).
In mancanza di accordi, lo status quo si sarebbe protratto a tempo indeterminato, senza possibilità di uscirne per gli inglesi. «Una fregatura secondo i conservatori radicali che hanno votato contro la May, perché avrebbe obbligato il Paese a rispettare i dazi concordati dall’Unione europea con Cina, Usa o Canada» dice l’esperto.
Si potrebbe rimandare l’uscita di Londra dall’Ue
Secondo un sondaggio di YouGov, in un eventuale nuovo referendum vincerebbe il “Remain”. Idea che stuzzica l’opposizione laburista, ma non la premier, che andrebbe incontro a un suicidio politico. Westminster vota il 29 gennaio un nuovo documento, discusso in questi giorni tra la May e la Commissione Ue. «È plausibile che intanto si prenda tempo, spostando la data del “Leave” definitivo dal 30 marzo a luglio o a fine anno. È vero, a maggio ci sono le elezioni europee, ma si potrebbe votare senza far partecipare gli inglesi» dice Villafranca.
Senza accordo sulla Brexit, l’economia rallenta
L’alternativa estrema è l’addio immediato senza accordi. Secondo l’Fmi, questo costerebbe al Regno Unito, divenuto di colpo un Paese extra Ue, il 4% di Pil in meno per 10 anni, ma anche l’Ue perderebbe l’1,5%. Un’ipotesi che non conviene neppure all’Italia. «Esportiamo in Gran Bretagna per 23 miliardi di euro l’anno» conclude l’esperto. «Sul totale dell’export è solo il 5%, ma è una quota da difendere perché il made in Italy piace e il dato cresce costantemente dal 2012».