“Mi dicono che sono brutto, che non ho amici, mi prendono in giro per il mio naso, mi hanno versato del latte sui vestiti…”, sono le parole in lacrime di Keaton Jones, un ragazzino degli Stati Uniti “bullizzato”.
La mamma di fronte all’ennesimo sfogo del figlio ha deciso di mettere in rete il dramma che sta vivendo. Una scelta non priva di polemiche visto che è stata accusata di sfruttare il figlio al fine di lanciare una campagna di raccolta fondi per la famiglia. Stando a quanto ricostruito da Tmz, in due giorni la pagina “Stand Up for Keaton” ha raccolto quasi 60mila dollari chiudendo frettolosamente i battenti.
Diciassette milioni di visualizzazioni hanno scatenato una bufera su questo caso che potrebbe nascondere un fenomeno tipicamente americano, ovvero far soldi grazie a video di questo tipo dove a pagarla sono soprattutto ancora una volta i bambini.
Ma al netto delle polemiche restano le lacrime e le parole di Keaton. Vere. Disarmanti: “Non mi piace che lo facciano a me, e neanche che lo facciano ad altre persone, perché non va bene. Le persone che sono diverse non hanno bisogno di essere criticate per questo”.
La storia di Keaton in realtà ci svela una sorta di analfabetismo dei genitori e degli insegnanti di fronte al bullismo. La cronaca di queste ore ci riporta proprio un nuovo caso in Italia che aiuta a riflettere: alla scuola media di Cefalù, un ragazzino di 12 anni, stanco di subire atti di bullismo, si è versato addosso della benzina e ha tentato di darsi fuoco in classe. Fortunatamente, gli insegnanti e i compagni sono riusciti a bloccarlo in tempo.
Da una parte una madre che usa i social per lanciare un appello disperato o forse per strumentalizzare la sofferenza del figlio, dall’altra parte un ragazzo che sceglie di lanciare il suo grido d’aiuto proprio a scuola.
Non c’è nulla di nuovo nel bullismo: questo tipo di violenza è sempre esistito nella storia dell’infanzia. Chi non ricorda un amico che è stato preso in giro, minacciato, insultato al limite della persecuzione?
Chi scrive, se fosse nato nel 2000 forse sarebbe stato “etichettato” come bullo visto che a 13 anni presi di mira un compagno di classe arrivando a distruggergli la bicicletta.
La novità sta nel fatto che i nostri ragazzi non sanno più a chi rivolgersi. Nelle scorse settimane dei miei ex alunni oggi alle medie hanno creato un gruppo su WhatsApp per chiedermi aiuto: “Maestro ci puoi dare una mano perché c’è un bullo a scuola e non sappiamo come fare. Con chi possiamo parlare? Ci aiuti?”.
Dopo quattro anni di lavori parlamentari è entrata ufficialmente in vigore la legge 71/2017 contro il cyberbullismo che prevede tra le altre cose la designazione, in ogni istituto scolastico, di un docente con funzioni di referente per le iniziative contro il cyberbullismo che dovrà collaborare con le Forze di polizia, e con le associazioni e con i centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio.
Basta? No. I ragazzi non hanno bisogno di uno sportello, di un referente. Queste iniziative servono solo agli adulti.
Un 12enne in piena crisi adolescenziale ha bisogno di insegnanti che siano educatori, che sappiano leggere tra le righe, che siano in grado di percepire, che non siano “fuori” dai social ma “dentro”, che sappiano “decodificare” il linguaggio dei ragazzi.
Nelle ultime settimane un’insegnante sicuramente competente nella sua materia mi ha chiamato disperata di fronte ad un caso di bullismo. Era andata in panico. Temeva denunce da parte dei genitori.
Di fronte a tutto ciò non è una Legge a proteggere i nostri ragazzi ma solo un serio investimento sulla formazione dei nostri docenti. Un buon insegnante di educazione artistica o di matematica non è detto che ne sappia di psicologia o di pedagogia. Non solo. I nostri professori e maestri devono conoscere la legislazione, sapere quali sono i loro limiti, sapere come muoversi tra istituzioni, genitori, forze dell’ordine.
Spesso la famiglia non ha gli strumenti per affrontare un episodio di bullismo. Non è detto che una madre e un padre sappiano affrontare queste situazioni. La scuola, invece, deve saperlo fare. È il suo lavoro. È il suo compito.
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