Chiara ha 13 anni, vive in un paese della provincia di Milano, frequenta la seconda media, fa judo ed è stata, fino a poche settimane fa, una bulla. Una che ha ingiuriato e umiliato i compagni. Una che ha costretto la migliore amica a fare i compiti al posto suo e poi l’ha presa a calci e ha diffuso il filmato dell’aggressione su Internet. Eppure Chiara è una ragazza in gamba. Argomenta le sue ragioni, spiega il perché dei suoi comportamenti. E affronta, con un po’ di ansia, le mie domande.
Chiara, quando sei diventa una bulla?
«Dopo essere stata vittima di altri bulli. Un anno e mezzo fa ho iniziato la prima media. Mi sono trovata in una classe dove erano già tutti amici. E io isolata, fin da subito. Hanno cominciato a prendermi in giro. Sono alta di statura, lo vedi. La più alta, e allora portavo l’apparecchio ai denti».
Cosa ti dicevano, cosa ti facevano?
«Ridevano del mio aspetto. Facevano commenti cattivi. Ma non mi importava (non è vero che non le importasse, lo capisco dalla fatica con cui dice queste parole, ndr). Poi hanno iniziato con scherzi più pesanti. Nell’ora di educazione fisica mi prendevano la maglietta o i pantaloncini, se li tiravano tra loro. O mi nascondevano una scarpa, una sola. In classe mi sparivano i libri durante le lezioni… Me li ridavano solo alla fine».
Tu non protestavi?
«Io sono molto timida, non avevo il coraggio di reagire. Neppure la mia unica amica parlava: avevano iniziato a prendere di mira anche lei perché stava con me».
E i tuoi insegnanti? «Mi trattavano come se facessi i capricci. “Fatti ridare la scarpa” mi dicevano. E io la chiedevo, la scarpa. Inutilmente. Tutto questo è andato avanti un anno. Ma è diventato pesante, insopportabile quando…» (non va avanti e arrossisce).
Quando? «Hanno creato un gruppo su WhatsApp dove si scambiavano foto di brutte persone e anche di scimmie (mentre lo dice, guarda per terra, non alza mai lo sguardo, ndr) e scrivevano: questa è Chiara. Lì mi sono arrabbiata, lo ero sempre di più. Fino a quando, un giorno, esco in giardino e vedo tutta la classe che circonda la mia amica. Lei è in mezzo e loro la insultano. La rabbia che avevo dentro è esplosa. Sono saltata addosso a quello che era il “capo”. E ho cominciato a picchiarlo fino a quando non sono intervenuti due professori che hanno cercato di dividerci. Io però ho continuato a colpirlo, a prenderlo a calci. Mi hanno trascinato in presidenza. Ho cercato di spiegare, ma non mi hanno creduto. Sono stata sospesa per tre giorni. Quando sono tornata a scuola era cambiato tutto».
Tutto cosa? «Tutto. I miei compagni mi salutavano, chiedevano come stavo. Mi rivolgevano la parola. Parlavano a me: non era mai successo prima. Ho chiesto alla mia amica: “Perché?” E lei mi ha spiegato che quei ragazzi avevano discusso tra loro: se avevo aggredito il loro capo, se l’avevo picchiato come avevo fatto, allora ero la più forte di tutti. La mia vita è migliorata tantissimo. Hanno cancellato le foto con il mio nome dal gruppo di WhatsApp, mi hanno chiesto di partecipare alle loro feste. E io mi sono convinta che essere bulla e stare dalla parte dei cattivi fosse la cosa giusta, certamente la più comoda. Così ho iniziato a fare anch’io quello che gli altri avevano fatto a me. A prendere in giro quelli bassi d’altezza, per esempio. E poi a fare scherzi ai più deboli. La sera mi piaceva stare fuori fino a tardi: con i ragazzi fumavamo, imbrattavamo i muri con le bombolette spray».
Quanto è andata avanti questa situazione? «Qualche mese. Fino al giorno in cui, negli spogliatoi prima di una lezione di ginnastica, è successa una cosa. Alla mia amica, che non era più la mia amica, avevo imposto di farmi i compiti. Ma lei si era rifiutata. E io avevo cominciato a sentire dentro di nuovo quella rabbia incontrollabile che avevo dimenticato. Quando mi ha detto “No, i tuoi compiti te li fai tu”, quella rabbia è esplosa. Contro di lei».
Cosa vuoi dire? «L’ho presa per i polsi, l’ho sbattuta contro il muro, l’ho buttata a terra e ho cominciato a prenderla a calci. Mentre la picchiavo ricordavo quello che avevo subìto io per un anno. Ero arrabbiata con tutti, ero arrabbiata con lei. E forse anche con me stessa. Nessuno l’ha difesa. Anzi. Alcuni dei miei compagni hanno ripreso la scena con il telefonino. Poi abbiamo messo il filmato in Rete, su WhatsApp e su YouTube».
E tu? «Di nuovo in presidenza, di nuovo sospesa per tre giorni. Ma questa volta è andata peggio. La famiglia della mia amica e la scuola hanno fatto denuncia alla polizia postale per bloccare il video. E mio padre e mia madre, che sono separati ma le decisioni su di me le prendono insieme, mi hanno messa in punizione: niente telefono, niente tv, niente computer, vietato uscire. Mi hanno reclusa».
Oggi ne parli al passato. Cos’è successo? «Nell’anno in cui sono stata vittima di bullismo, non ho mai detto una parola ai miei genitori. Poi è arrivata la prima sospensione, e loro non hanno creduto ai miei racconti. Hanno detto che esageravo, non riuscivano a spiegarsi il perché di quello che avevo fatto. Quando ho aggredito la mia amica, mamma e papà hanno cominciato a credermi. E hanno capito che avevo bisogno di aiuto. Ho parlato con un educatore dell’oratorio che frequentavo, la scuola ha contattato l’associazione Pepita. È arrivato Ivano (Ivano Zoppi, il presidente, che le è stato accanto per tutta l’intervista; vedi box qui sopra, ndr). Abbiamo fatto un “percorso” di classe, anzi di tutta la scuola. Nessuno ha mai parlato del mio caso specifico, ma tutti avevamo capito che quegli incontri nascevano da quanto mi era successo. Io ho rivisto il video e ho pensato che no, non ero io quella persona. E le cose che avevo fatto non stavano né in cielo né in terra. Ho chiesto scusa alla mia amica e siamo di nuovo unite. Se sono ancora arrabbiata? No, non lo sono più».
Come va adesso con i tuoi compagni? «Bene. Hanno capito. Abbiamo capito tutti».
E che cosa ti resta di questa storia? «Paura e un po’ di schifo. Paura perché non sono riuscita a fermarmi, e anche perché gli altri non si sono fermati. Schifo perché penso a quello che ho fatto. Ed è davvero una bruttissima cosa».