Il Parkinson è la malattia neurodegenerativa progressiva più diffusa dopo l’Alzheimer. Si stima che in Italia oltre mezzo milione di persone ne soffra, anche se ufficialmente i dati parlano “solo” di 250mila. Complice l’invecchiamento della popolazione, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità entro il 2030 ci potrebbe essere un raddoppio dei casi nel mondo.
Eppure dalla ricerca sembrano arrivare anche buone notizie, come un possibile effetto positivo del caffè sulla progressione della malattia. A occuparsi del tema è anche la Società italiana di neurologia, i cui esperti ritengono che un consumo moderato di caffè “protegga” dal morbo, come conferma il Presidente della stessa SIN, Alfredo Berardelli, neurologo e docente presso la Sapienza di Roma, una delle Università che hanno partecipato a un recente studio.
Il caffè protegge dal Parkinson? Cosa dice lo studio
Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Parkinson’s & Related Disorders, ha visto la collaborazione tra diversi atenei italiani (oltre alla Sapienza anche le università di Bari, Catania e Verona) e straniere (Albert Einstein College of Medicine di New York), che hanno lavorato insieme al dipartimento di neurologia dell’ASST Pavia-Voghera e all’IRCCS Neuromed di Pozzilli. A coordinare il lavoro è stato Giovanni Defazio dell’Università di Cagliari, tra i pionieri in questo campo e già autore di altre ricerche sul tema. Ciò che è emerso è che un pregresso consumo moderato di caffè può ritardare l’età d’esordio della malattia. «Questo studio, a cui abbiamo partecipato anche noi come Dipartimento di Neurologia della Sapienza, insieme ad altri conferma che il consumo di caffè diminuisce il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson. Il campione preso in esame, circa 7/800 persone, è significativo e mostra che tra coloro che hanno assunto caffè prima dell’esordio della malattia, coloro che poi realmente si ammalano sono un numero inferiore rispetto al gruppo di controllo, cioè quelli che non avevano bevuto caffè in passato» chiarisce Berardelli.
Come il caffè contrasta il morbo di Parkinson
Ma qual è il motivo per cui si notano differenze tra chi ha assunto caffè e chi no, rispetto allo sviluppo della malattia di Parkinson? «L’effetto protettivo della bevanda sembra sia legato al suo contenuto di caffeina. Tra coloro che bevono decaffeinato, infatti, non si riscontrano gli stessi effetti benefici. Il motivo, in termini medici, è legato all’azione della caffeina su alcuni recettori, detti adenosinici, che sono localizzati in alcune strutture del nostro cervello e sono cruciali per lo sviluppo della malattia di Parkinson» spiega il presidente della SIN.
Questi recettori sono importanti per il corretto funzionamento dell’adenosina, che a sua volta è responsabile della normale funzionalità delle cellule nervose e rappresenta un segnale di infiammazione. Il caffè, secondo quanto emerso finora, funziona bloccando questi recettori che sono numerosi a livello dei gangli basali colpiti dalla malattia di Parkinson. «L’esatto meccanismo non è ancora chiaro in termini di evidenze scientifiche, ma rappresenta un campo di ricerca importante, anche per poter mettere a punto farmaci anti-Parkinson antagonisti dei recettori dell’adenosina, per curare la malattia» aggiunge l’esperto.
La quantità giusta di caffè perché protegga da Parkinson
Le speranze, quindi, non mancano anche perché le ricerche mostrano possibili effetti positivi della caffeina anche nella riduzione dei sintomi della malattia, una volta diagnosticata: «Un altro studio condotto dal nostro Dipartimento ha indagato i livelli di caffeina presenti nella saliva, che contiene molte sostanze che si trovano nel nostro organismo. Si è visto che nei pazienti con Parkinson questi livelli sono più bassi rispetto alla popolazione di controllo, e la differenza è particolarmente marcata in coloro che hanno una forma più grave di malattia. La conclusione è che con la quantità di caffeina è inversamente proporzionale alla progressione della malattia» aggiunge Berardelli. Ma qual è il quantitativo corretto di caffè da assumere, senza incappare in eventuali conseguenze negative? «In base agli studi condotti possiamo dire che una tazzina o due al giorno, al massimo tre, in linea generale potrebbero essere il numero utile a prevenire la malattia di Parkinson, ma va detto che non c’è una quantità fissa. Attenzione, infatti, a non “intossicarsi” di caffè, che può avere altri effetti collaterali nocivi, come far aumentare la pressione» chiarisce il neurologo.
Un altro fattore di protezione contro il Parkinson: attività fisica
L’azione positiva del caffè, comunque, non l’unica in grado di contrastare l’evoluzione della malattia: anche una moderata attività fisica quotidiana, seguita prima che si manifesti il Parkinson, può migliorare i sintomi, come emerge da altri studi. Uno di questi era stato presentato da Defazio già nel 2017, individuando tra i fattori protettivi proprio attività fisica e caffeina, mentre un’altra ricerca condotta in Italia risale a un paio di anni fa, quando era stata pubblicata su Neurobiology of Disease. Tra gli effetti positivi erano stati individuati una riduzione di dolori, incontinenza, ipotensione ortostatica, stipsi, disturbi del sonno, affaticamento, ansia e depressione. «In effetti è così: i due principali fattori di protezione sono rappresentati proprio da caffeina e attività fisica. Dalle ricerche emerge anche un ruolo protettivo del tè, della vitamina E e dei cosiddetti Fans, gli antinfiammatori non steroidei, ma su questo sono in corso nuove analisi. Al contrario, è emerso un ruolo negativo dei pesticidi che rappresenterebbero, quindi un fattore di rischio» spiega l’esperto.
Fattori protettivi e fattori di rischio
Un altro aspetto su cui si concentra la ricerca sul Parkinson, infine, è la possibilità che esistano diverse forme della malattia, con differenti cause scatenanti e dunque anche modalità di approccio specifiche a seconda del tipo di evoluzione. Al momento si sa che tra i fattori di rischio ci rischio c’è sicuramente la familiarità: «In effetti si è visto che ci sono gruppi di fattori protettivi e di rischio, che possono funzionare in modo diverso anche a seconda dei soggetti. Una delle cause principali, però, resta la familiarità alla malattia, insieme all’età avanzata: il Parkinson ha una frequenza che aumenta moltissimo dai 70 anni e soprattutto dopo gli 80» conclude il presidente della SIN.