Forse non è avvenente come Teresa Mendoza, protagonista della serie di Netflix La Reina del Sur, storia vera dell’ascesa di una modella messicana da donna del boss a capoclan. Ma gli inquirenti l’avevano ribattezzata comunque “Regina dei narcos”. Perché Carmela Riemma, condannata nel 2015 a 21 anni di reclusione per spaccio internazionale di droga, aveva continuato a esercitare il suo dominio anche dopo essersi mimetizzata nell’hinterland vicentino, dove lavorava come badante sotto falsa identità. La sua latitanza, terminata il 23 agosto scorso, ha allargato un velo già squarciato da tempo: quello delle donne capaci di raggiungere posizioni di vertice all’interno della criminalità organizzata.
Sono inserite nelle famiglie
«L’epoca delle donne mute e sottomesse, dedite a preparare le borse di biancheria per figli e mariti incarcerati o a invocare giustizia davanti alle loro bare, è passata da tempo» sentenzia il criminologo Romano Achilli. «Negli ultimi anni, paradossalmente, le mafie italiane si sono dimostrate più meritocratiche e attente alle quote rosa di qualsiasi altro settore. E moltissime madri, mogli e compagne di affiliati sono salite al comando dei clan di appartenenza». Le ragioni di questa escalation sono tante e differenti. La prima è di ordine pratico: a partire dall’inizio degli anni 2000 faide e arresti hanno decimato parecchi clan, soprattutto in Campania. Non a caso la camorra è l’organizzazione più attiva su questo fronte, come spiega Simone Di Meo, autore del romanzo appena uscito Gotham City, un viaggio senza sconti tra le famiglie malavitose di Napoli: «Già nel 1981 Rosetta, la sorella maggiore del boss Raffaele Cutolo, teneva la contabilità del clan e ne prese le redini durante la detenzione del fratello».
Maria Licciardi è stata la prima a entrare nella lista dei superlatitanti. Carmela Riemma gestiva lo spaccio di droga fingendosi una badante
Se quella di Rosetta fu una gestione emergenziale, tuttavia, non lo sono state le successive. Lo dimostra Maria Licciardi, eletta 15 anni fa da un consesso tutto maschile a capo dell’Alleanza di Secondigliano, oltre che prima donna a entrare nella lista dei latitanti più pericolosi. E lo conferma Teresa De Luca Bossa, prima mafiosa a finire al 41bis: in precedenza le uniche italiane a sperimentare il carcere duro erano state le brigatiste. Ma se il terrorismo era la quintessenza delle pari opportunità, nella camorra l’investitura è rimasta ereditaria: «Licciardi e De Luca erano figlie e mogli di padrini» ricorda Di Meo «come lo sono le donne che oggi guidano molte delle famiglie più importanti dell’area di Napoli Sud, da Torre Annunziata a Portici, da Torre del Greco a Ercolano».
Custodiscono i segreti dei clan
Questo ci porta alla seconda ragione chiave dell’ascesa criminale al femminile: «La vicinanza e la lealtà ai boss da sole non bastano, ma diventano fondamentali per conoscerne strategie, segreti, canali di finanziamento » osserva Achilli. «Logico dunque che nei momenti più critici, come quelli che seguono l’arresto o l’uccisione dei vertici, una scelta del genere sia il miglior segnale di continuità». Sempre più spesso, in realtà, l’emancipazione arriva anche in assenza di svolte violente. Lo dimostra la crescita delle quote rosa all’interno dell’organizzazione criminale più tradizionalista e maschilista che ci sia: la ’ndrangheta. «Le ’ndrine calabresi hanno sempre riservato alle donne ruoli più importanti e autonomi rispetto a quanto previsto dai codici mafiosi, ma anche rispetto a quanto spesso avviene nella società “normale” di quei luoghi» aggiunge Achilli. «Hanno potere decisionale, capacità di mediazione, lavorano gomito a gomito con gli uomini nei traffici più redditizi come armi e droga».
Hanno libertà di movimento
A proposito di droga, molti non sanno che l’espansione ’ndranghetista nel mercato milanese degli stupefacenti iniziò proprio con una donna, Maria Serraino detta “mamma eroina”, spedita al Nord dai familiari perché avviasse il business senza dare nell’occhio. Ci riuscì, anche perché poteva contare su un vuoto legislativo che in parte regge ancora oggi: «I colloqui in carcere tra un mafioso e la moglie sono difficilmente utilizzabili nei processi, proprio come quelli con gli avvocati» rivela Di Meo «a meno di non indagare subito anche il visitatore per associazione mafiosa. Cosa che per le donne fino a pochi anni fa avveniva raramente: così molti boss hanno continuato a gestire i loro affari dietro le sbarre, legittimando allo stesso tempo l’autorità delle mogli, diventate interlocutrici obbligate degli affiliati più alti, della politica, persino dei narcos colombiani e messicani. Oggi nelle 3 principali mafie italiane (compresa Cosa Nostra, fino agli anni ’90 restia) il fenomeno è più variegato, ma si è senza dubbio rafforzato. «Negli anni molti boss hanno fatto studiare le figlie, che non sono più semianalfabete da dare in spose per suggellare alleanze, ma agiscono nella finanza, nel commercio e nei servizi. Dove le esibizioni muscolari non servono e le normative sull’autoriciclaggio (la ripulitura dei soldi a opera dei familiari di un indagato, ndr) hanno ancora parecchie lacune».