Il Nobel per la medicina 2018 è andato a quelli che sono già stati soprannominati “i papà” dell’immunoterapia, la nuova frontiera delle cure contro il tumore: James Allison, americano, ha scoperto il ruolo del recettore CTLA-4. Tasuku Honjo, giapponese, quello del PDL1.
La scoperta dei due recettori e l’immunoterapia
Due ricerche indipendenti ma complementari: la conoscenza dell’esistenza di questi due recettori, cioè scudi che mantengono invisibili le cellule oncogene permettendone la proliferazione, ha portato alla messa a punto dell’immunoterapia. Vale a dire, di farmaci che mandano ko i due recettori e rendono visibili le cellule malate, in modo da renderle aggredibili dal sistema immunitario dell’organismo.
L’obiettivo del 2050
Ma questo è solo l’inizio, come hanno raccontato i due ricercatori durante la conferenza al Karolinska Institute a Stoccolma. Oggi, circa il 40-50% dei pazienti beneficia di questa terapia. L’obiettivo, hanno sottolineato, è di arrivare a curare così tutti i tumori nel 2050. Non per eliminarli, hanno aggiunto a scanso di equivoci, ma per sopravvivere alla malattia oncogena. Una condizione, questa, che in parte è già realtà. Fino a poco tempo fa la vita era breve per chi soffriva di melanoma. A distanza di un anno erano ancora vivi solo due pazienti su dieci. Oggi i “survival”, come vengono chiamate le persone che convivono col tumore come se fosse una malattia cronica, sono oltre sette su dieci.
Tumori caldi e tumori freddi
I tumori che rispondono meglio all’immunoterapia sono quelli cosiddetti caldi. Chiamati così perché hanno alcune caratteristiche particolari, come la presenza all’interno di cellule immunitarie quali i linfociti T. Una peculiarità, questa, che non è di tutte le forme oncologiche: quelle che ne sono prive vengono definite “fredde”. La nuova frontiera di ricerca punta proprio su questi cancri e gli studi hanno come scopo quello di “stuzzicarli” per farli diventare caldi, quindi reattivi all’immunoterapia. Allison sta seguendo questa via per convertire in caldo il tumore della prostata, la principale neoplasia maschile. E lo fa con un mix di ipilimumab, un farmaco immunoterapico, e di principi attivi di vecchia generazione. L’obiettivo? Indurre cambiamenti nel microambiente attorno al tumore, costituito da cellule che formano un muro solido a difesa del cancro.
A che punto è la ricerca in Italia
«Sono studi che stiamo portando avanti anche noi in Italia», sottolinea Michele Maio, direttore del Centro di immunoncologia del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. «Ci sono diversi filoni di ricerca. Nel nostro Centro abbiamo appena iniziato uno studio che utilizza un farmaco epigenetico in combinazione con un immunoterapico. I risultati sulle cavie sono stati positivi e siamo riusciti a cambiare le caratteristiche del tumore e a renderlo “caldo”». Honjo nella sua relazione si è soffermato sul microbioma, cioè l’insieme di batteri buoni e cattivi che fanno parte della flora batterica intestinale. «Gli studi sono ancora agli albori, ma si sta ipotizzando che si possa agire direttamente a livello della flora intestinale per aumentare l’efficacia dell’immunoterapia», continua Maio. «All’ultimo congresso internazionale di immunoterapia sono stati presentati dei dati iniziali su 3-4 pazienti che hanno subito il trapianto fecale. E si è visto che determinate composizioni di microbioma potrebbero potenziare l’azione dei farmaci».
La nuova frontiera delle cure
Ma non è finita. Allison e Honjo hanno dato il via a una rivoluzione importante. E a grandi passi si sta arrivando a un modo diverso di curare il cancro. Il cambiamento già si vede. Atezolizumab, che fa parte della nuova generazione di immunoterapici, è oggetto di una decina di studi suddivisi tra tumore del seno triplo negativo, il più difficile da curare al momento, e quello del polmone. «Si sta arrivando a cure sempre più personalizzate, ritagliate sulla base delle caratteristiche molecolari del tumore, al di là dell’organo colpito», conclude Maio. «L’obiettivo non è più colpire direttamente il cancro, ma agire sul sistema immunitario. Le cellule oncogene sono furbe, ma le ricerche ci stanno svelando sempre di più sulle tattiche che utilizzano. Dobbiamo essere in grado di esaminare i meccanismi nel loro insieme e di capire quali sono i farmaci immunoterapici da usare, in sequenza, oppure in combinazione e quali altre molecole utilizzare in più, come stiamo vedendo dagli studi in corso. È una terapia più raffinata, ma necessaria per arrivare all’obiettivo di Allison e Honjo per il 2050».