Chi ha avuto un tumore – anche se guarito – non può chiedere un mutuo, la banca non si fa carico dell’assicurazione sulla sua vita. Ma non può neanche usufruire di aiuti se riesce ad avere un figlio. Se poi le terapie e gli strascichi della malattia impediscono di diventare genitore naturalmente e si avventura nell’adozione, le porte (per lei come per lui) si chiudono: in Italia già è difficile adottare per le persone sane, quasi impossibile per chi ha lo stigma del cancro. Già, perché anche se sopravvivi, le cicatrici sociali te le porti sempre dietro. Come Giulia Panizza, 40 anni, che ha chiuso la sua partita con il neuroblastoma nel 1993, sigillata dall’etichetta di “lungo sopravvivente”. Una formula più medica che burocratica, che però non le consente di vedere riconosciuti tanti diritti.

Le statistiche non sono legge

Giulia infatti è una delle pochissime persone in Italia sopravvissute al neuroblastoma, un tumore molto aggressivo che colpisce in età pediatrica (circa 140 sono i casi all’anno in Italia, 15mila nel mondo). Un tumore quasi sconosciuto 40 anni fa, quando è nata, ma anche 20 anni dopo, quando Giulia iniziò le pratiche per l’invalidità. «Ho avuto la fortuna di una diagnosi precocissima, a pochi mesi, e di abitare a Genova, dove l’ospedale Gaslini era già all’avanguardia. Ho subito cure invasive e diversi interventi molto delicati, la mia sopravvivenza è una scommessa contro le statistiche e qualsiasi aspettativa medica. Per questo quando mi sono trovata a sbrigare le pratiche per l’invalidità, ho trovato un muro. Ero una giovane donna, studiavo con profitto all’università, avevo ancora tutti gli arti (perché questo tipo di tumore si porta dietro pesanti strascichi, tra cui l’amputazione), insomma apparentemente ero sana, quindi per la commissione medica non avevo nulla. Il neuroblastoma poi era sconosciuto quindi sono stata liquidata senza mezze parole».

Chi ha avuto o ha un tumore non può chiedere il mutuo

Questo è accaduto 20 anni fa. Nel frattempo Giulia si è laureata e ha ripreso l’iter per l’invalidità. «Ingoiando umiliazioni a ogni visita, ho ottenuto un 66 per cento che non mi consente di avere quasi nessuna facilitazione, anzi, mi si è rivoltato contro al momento di chiedere un mutuo con mio marito Alessandro per l’acquisto della casa. Nel questionario da compilare avrei dovuto dichiarare di non aver mai sofferto di malattie oncologiche. Niente da fare, colloqui e appuntamenti con i funzionari non sono serviti, l’assicurazione non si fa carico di “vite a perdere”. Eppure io sono qui, e come me tante persone che superano la malattia e vivono ancora a lungo». Persone a tutti gli effetti discriminate rispetto a quelle sane, senza una legge che le tuteli. «Anche chi ha avuto un infarto o ha altre patologie incontra problemi con il mutuo perché la banca dovrebbe assicurare la persona per un valore molto alto, e quindi non lo fa» dice Maria Luisa Missiaggia, avvocato matrimonialista e della famiglia, fondatrice di Studiodonne Onlus. «In particolare per chi ha un tumore, lo Stato dovrebbe intervenire, come ha fatto per i mutui per i giovani. Ma soprattutto occorre cambiare prospettiva: bisogna valutare caso per caso, senza affidare le conclusioni a tabelle e Consulenze tecniche d’ufficio (le CTU) spesso frettolose e incompetenti. Occorre creare una rete tra medici e consulenti specializzati nella materia per offrire risposte su misura».

Anche l’adozione è preclusa

Questo vale anche per l’adozione, una possibilità presto abbandonata dalle coppie in cui uno dei partner abbia avuto un tumore, perché le speranze di ricevere un bambino sono pochissime, come spiega l’avvocatessa. «Per legge non si può avviare l’iter se non sono passati almeno 5 anni dalla diagnosi di tumore di uno degli aspiranti genitori. Ma – come sostengono molte associazioni – alcuni guariscono in due anni, altri impiegano più tempo, anche 20 anni o tutta la vita. Si dovrebbe negare l’adozione solo con un rischio imminente e concreto di morte, altrimenti siamo di fronte a un pregiudizio. Lo spirito della legge, certo, è il superiore interesse del minore quindi, tra una persona sana e una malata, la priorità viene data alla prima. Ma qui entrano in campo tanti fattori: la probabilità di avere o meno una recidiva, le nuove terapie in campo, gli stili di vita. Visti i progressi della ricerca, dovrebbero essere stilate nuove linee guida con la collaborazione di medici, associazioni, magistrati, avvocati specializzati, per poter valutare ogni caso specifico. E invece si decide, anche qui, sempre sulla base delle CTU che a loro volta rispondono a paradigmi rigidi che non si confrontano con la realtà e soprattutto con l’evoluzione della scienza». La maggior parte dei Tribunali non riconosce l’idoneità all’adozione alle coppie se non sono passati almeno 5 anni dalla diagnosi di tumore di uno degli aspiranti genitori. Ma in questo modo non si tiene conto che ogni caso è a sé, e che certi tumori guariscono in due anni, mentre per altri possono volercene anche 20, una vita!

Chi diventa mamma dopo un tumore non ha sostegni

Giulia è proprio l’esempio di come ogni situazione andrebbe valutata a sé. Infatti, contro ogni previsione medica, studio e statistica, questa bambina condannata a morire adesso è la mamma felice di Riccardo, che ha quattro anni e mezzo. «Ma per lo Stato io sono una mamma come un’altra. Eppure alla nascita del bimbo ho avuto gravi problemi neurologici: non potevo tenerlo in braccio e così mi ha aiutato per mesi un’ostetrica a casa, a pagamento. Aiuti che devo continuare a pagarmi anche per le faccende di casa, perché non riesco a stare tanto tempo in piedi. Per questo non posso chiedere il part time, che rientra – grande conquista recente – tra i diritti dei malati di tumore».

Più diritti per le persone che vivono con un tumore

Proprio per stimolare un dibattito sul DOPO le cure, su come si vive, sulle aspettative, sui diritti, Giulia è ambassador dell’Associazione Italiana per la lotta al Neuroblastoma. L’associazione si dedica soprattutto a raccogliere fondi per la ricerca, indispensabile per andare oltre il dibattito sulla sopravvivenza e poter pensare a come tutelare le persone, come lei, che vivono “con” il tumore, e non “nonostante il tumore”. «Oltre alle recidive e alle cure – conclude Giulia Panizza – ci sono altri aspetti sociali da valutare: come vivono i genitori dei bambini con questo tumore, che permessi possono prendersi al lavoro, che spese sostengono per curarli. E poi, da grandi, tra 20 anni, quando la ricerca darà i suoi frutti, dovremo parlare di diritti, di come sarà la vita dei bambini di domani, quando avranno 40 anni e dovranno anche loro poter fare una vita normale, come tutti gli altri».