Là dove non arrivano sofisticate apparecchiature mediche e cliniche, potrebbe arrivare il fiuto di un cane. Dopo il Regno Unito, anche la Corsica ha iniziato ad addestrare i cani a riconoscere l’odore del COVID-19. Il programma si basa su alcuni precedenti: questi animali, infatti, non solo sono usati in unità anti-droga, ma si sono dimostrati in grado di individuare persone infette da malattie come la malaria e alcuni tipi di tumore.
Nel Regno Unito e in Corsica è iniziato l’addestramento
Già impiegati in tutto il mondo, Italia compresa, per rintracciare i dispersi dopo le calamità, ma anche ordigni esplosivi e droga, ora i cani sono impiegati in via sperimentale per fiutare tracce di persone infette da coronavirus. Il governo britannico ha stanziato 500mila sterline per avviare l’addestramento di 6 cani (Labrador e Cocker Spaniel). In una prima fase ai cani sono fatti annusare e riconoscere campioni di odori sia di persone contagiate che di soggetti sani. A coordinare la ricerca sono gli esperti veterinari della London School of Hygiene Tropical Medicine e della Durham University, che stanno collaborando con il Medical Detection Dogs, ente benefico già impegnato in altri progetti analoghi anche con l’Italia.
Anche in Corsica è partito un addestramento simile, con l’unità cinofila dei Vigili del fuoco di Ajaccio. L’obiettivo delle autorità corse, così come di quelle britanniche, sarebbe un successivo di impiego dei cani nei controlli in luoghi pubblici come gli aeroporti oppure alla frontiera, soprattutto nei confronti di soggetti asintomatici. «C’è un interesse crescente verso questo ambito di ricerca tanto che anche in Italia si sta valutando uno studio analogo all’Università statale di Milano» conferma Enrico Alleva, ex etologo dell’Istituto Superiore di Sanità, ora presidente della Federazione italiana delle scienze della natura e dell’ambiente, e membro dell’Accademia dei Lincei.
Come i cani riconoscono le malattie
Esistono diversi studi che hanno mostrato la capacità dei cani di fiutare l’odore delle persone con alcuni tipi di tumore, come quello al polmone, o con malaria. «Non riconoscono la malattia in sé, ma la risposta che il nostro organismo fornisce in termini di odori, dunque i prodotti anabolici e catabolici dell’uomo ammalato» chiarisce Alleva. L’università statale di Milano ha condotto uno studio, pubblicato a gennaio, in collaborazione con l’Istituto europeo di oncologia (IEO) e la Medical detection Dogs britannica sulla capacità dei cani di fiutare il tumore al polmone: «Sono animali in grado di individuare, in un mazzo di fiori e in uno spazio aperto come uno stadio, il profumo di un singolo fiore o l’odore di ogni singola persona a bordo di un’auto con 5 passeggeri» premette la ricercatrice Federica Pirrone, Docente di Etologia Veterinaria e Benessere Animale presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. «Nel nostro studio abbiamo usato due pastori belga e un incrocio di segugia presa in canile. Siamo partiti dal fatto che il tumore altera il tessuto primario dell’uomo, creando i cosiddetti Vocs (volatile organic compounds), sostanze volatili che si sciolgono nel sangue e da qui arrivano fino alle secrezioni corporee, come l’urina. Noi abbiamo addestrato i cani a riconoscere queste «firme odorose» (in inglese signs) proprio nelle urine. Lo stesso principio è stato usato anche in Africa per il riconoscimento della malaria, facendo annusare ai cani i calzini dei bambini ammalati: qui si trovavano infatti tracce di sudore causato dalla febbre e desquamazioni, che avevano i vocs tipici della malattia».
Bisogna stabilire se il Covid ha un odore specifico
«Anche noi stiamo analizzando la fattibilità di una ricerca specifica sui cani nella diagnosi del COVID-19. A differenza del tumore, però, il coronavirus può dare patologie multiorgano (polmonari, gastroenteriche o alterazioni nella coagulazione), quindi bisogna capire se il COVID abbia una firma odorosa specifica e successivamente dove farla cercare ai cani. Non ultimo occorre disporre di un ambiente che garantisca la massima biosicurezza, sia per gli operatori che per gli animali. Finora i rarissimi casi di coronavirus nei cani sono stati frutto di contagio da parte dei padroni, quindi va valutato anche questo aspetto» spiega Pirrone.
Se da un lato occorre un certo investimento in termini economici, è anche vero che i benefici potrebbero essere elevati: «L’addestramento dei cani non sarebbe lungo (da 3 a 6 mesi, meno della messa a punto di un vaccino, comunque indispensabile) né difficile: è del tutto analogo a quello per fiutare un tumore o le sostanze stupefacenti. L’obiettivo sarebbe quello di poter disporre dei cani in fasi precliniche visto che sono in grado di individuare, ad esempio nei tumori, soggetti paucisintomatici, con sintomi lievi o assenti, anche in una fase iniziale della malattia» spiega la ricercatrice ed etologa.
I più adatti sono i cani disposti a collaborare
A dispetto di quanto si immagini, non esiste una razza privilegiata: «Alcune sono semplicemente più predisposte alla collaborazione con l’uomo, come i pastori belga e i pastori tedeschi, mentre il lupo cecoslovacco lo è meno. I segugi hanno una capacità olfattiva molto sviluppata, ma questa caratteristica deve coniugarsi con la disposizione a lavorare con l’uomo. Se è vero che i cani con il naso più corto sono meno favoriti, non ci sono comunque preclusioni e persino un carlino potrebbe essere adatto» conclude Federica Pirrone.