E noi caregiver? Noi per fortuna stiamo bene. Altrimenti come faremmo a occuparci di loro? Noi siamo i genitori, i figli, i fratelli di chi ha un tumore. Io sono la sorella. Anzi, se proprio devo raccontarla tutta, prima sono stata la figlia. Una delle tre. Sono una Baby Boomer, essendo nata nei mitici ’60. Fa una certa impressione appartenere per più della metà della propria vita a un altro secolo. Soprattutto perché, quando ero una ragazzina, la parola tumore non si usava. C’era il cancro. Ed era innominabile. Mi dispiacevo per chi era nato sotto quel segno zodiacale: non ho mai capito perché abbiano scelto proprio lui per indicare l’indicibile.
Ora lo so: visto che sto scrivendo questa cosa e non ci avevo mai pensato, sono andata a cercare. Sembra che Ippocrate chiamasse karkìnos, granchio, alcune formazioni tumorali simili alle chele del crostaceo.
Quando di cancro ne parlava solo il cinema
Negli anni ’70 della mia adolescenza di cancro si parlava solo nei film: primo fra tutti, Incompreso. Un Comencini del 1966 che tutti noi bambini di allora abbiamo visto, piangendo a dirotto dall’inizio alla fine. Lo proiettavano a scuola, ora probabilmente sarebbe vietato ai minori: Andrea soffre per la mamma morta (non si sa di cosa, ma ho sempre pensato di cancro) e poi muore anche lui. Dopo c’è stato Love Story, dove lei ha la leucemia. La stessa malattia del bambino di L’ultima neve di primavera e di tutta una serie di film lacrimevoli con cui siamo cresciuti.
Una sorta di educazione sentimentale, mi viene da dire ora, per prepararci al peggio. Che nel mio caso è arrivato nel 1975: quando avevo 13 anni, la mamma, la mia che si chiamava Natalia, mi scaraventa addosso l’orrore, ha il cancro. Un tumore al seno inoperabile scoperto per caso. Prospettiva di vita: pochi mesi. E io cosa faccio? Smetto di mangiare. Per fare psicanalisi spiccia, per morire un po’ anch’io probabilmente. Impossibile per me reagire diversamente. Me ne vergogno ancora oggi, ma allora non potevo fare altrimenti. Sono diventata malata. Ed è stato così per un po’ di anni, finché lei c’è stata.
Essere caregiver: tra rabbia e impotenza
Allora non si parlava molto di tumore, chi ce l’aveva non lo diceva. Pudore? Vergogna? Chi sapeva di noi, un padre giovane e tre sorelle ancora bambine, ci guardava con tristezza. Non bello. Ci sei già tu che vivi nell’angoscia che un giorno ti chiameranno a scuola per dirti che tua madre è morta. E così è andata. E dopo? Dopo inizia una nuova vita, diversa. Ma sei ancora una ragazzina, ti metti lo zaino dei ricordi in spalla e parti per una nuova avventura. Al cancro non ci pensi più, credi di aver pagato un prezzo esagerato per una cosa che non volevi, ma comunque hai saldato il tuo debito.
E invece no. Succede che 20 anni dopo si ammala tua sorella, 2 anni più di te. Sempre cancro al seno. Perché proprio lei, così fragile? Invece si scopre tostissima, come la mamma. Mai una lamentela, ma un’accettazione che ha del sublime. Io sono arrabbiatissima. Lei però è così brava, così religiosa, così organizzata… Sì, perché ci vuole organizzazione nella malattia, soprattutto se dura anni. Perché, anche quando ti dicono che sei guarita o fuori pericolo, continui a entrare e uscire dall’ospedale per controlli e esami vari. Paola non ha mai voluto essere accompagnata: il tumore era una cosa sua, da gestire come un incontro di lavoro o un appuntamento con le amiche. Proprio così, le “amiche di tetta”, come le chiamava lei.
Nel mondo parallelo di un caregiver
Fra ricoveri, sedute chemioterapiche e ore in sala d’aspetto ti fai tante amiche che ti somigliano nella malattia. Alcune non le vedi più perché se ne vanno per sempre, altre perché sono guarite davvero. Non ho mai chiesto, per pudore, cosa pensasse ogni volta. Quella era la sua vita speciale, noi sani non avremmo mai potuto capire: il cancro diventa il tuo tran tran.
Tutto bene finché va bene. Ma quando ti dicono che il male è tornato più forte di prima e che devi ricominciare tutto da capo… Sì, certo, in tanti anni (nel frattempo ne sono passati altri 20) la ricerca ha fatto passi da gigante, la chemio fa meno male, vedrai che ce la fai. Ma tu sei stanca e non è vero che ce la fai, anche se ci credi. Fai fatica e per la prima volta chiedi aiuto. Anzi, non lo chiedi tu perché non vuoi disturbare. Siamo noi sorelle a imporre la nostra presenza. Quotidiana e imbranata.
Fino ad allora avevamo vissuto la malattia da lontano, io almeno me ne stavo a debita distanza, accontentandomi del “Tutto sommato bene” alla domanda di rito “Come stai?”. Ma come si fa? Si fa e basta. Annulli la tua vita per un tot di ore al giorno ed entri in un mondo parallelo. In una casa che non è più quella in cui si facevano le cene di Natale. Ora sul tavolo non ci sono i regalini colorati, ma montagne di medicine, cartellette con ricette mediche e documenti dell’ospedale, fogli con tanti numeri di telefono per le emergenze e i libri, quelli ancora da leggere assolutamente.
Noi caregiver che ci ammaliamo restando sani
C’è un’orrenda poltrona, di quelle che ti aiutano ad alzarti, e tu te ne stai tutto il giorno su una sedia, in silenzio, per non disturbare. Ci si dà i turni fra sorelle e per fortuna che c’è un compagno, bravissimo, che si accolla la fatica maggiore. Fra di noi non si parla mai di questo. Ci si alterna silenziosamente, ci scambiamo informazioni organizzative. Poi, chiusa la porta, sei tu e lei, che hai capito che se ne sta andando ma non osi parlarne perché la speranza è ancora lì. Chiacchieri di tutto e niente, della vita fuori che ancora c’è ma non per lei. Non si guardano film, perché lei non riesce a reggere la vista di persone belle che hanno una vita. E poi lei si addormenta e tu ogni 5 minuti controlli il suo respiro.
Andare in ospedale è uno strazio con lei che non riesce più a camminare, si vergogna e chiede scusa ma è sempre spiritosa e intelligente. Scopri che conosce tutti, dal signore del parcheggio alle infermiere, e ti domandi come faccia a essere allegra quando tu, invece, vorresti spaccare tutto. E poi piangete insieme. Per fortuna che ogni tanto arrivano gli amici della Vidas a dare una mano, perché tu altrimenti non reggeresti. E cerchi di consolarti dicendo che questa volta sei un’adulta e che è un’occasione di riscatto: quando la mamma era malata tu non hai saputo aiutare.
Ma serve a poco: il senso di colpa, la voglia di dirsi tutto che magari è solo tua, il terrore della fine infinita. Forse è giusto che non si parli mai di noi, che di cancro ci ammaliamo pur rimanendo sani. Dei sogni che si fanno incubi ogni notte. Della certezza di non essere all’altezza. Della paura di tutto. Del dopo, che è una vita così diversa e dolorosa. Ma è pur sempre vita. Chi si occupa di noi?
Ora in libreria
«La storia di Eve è la mia storia» scrive Sophie Kinsella nelle note finali del suo nuovo romanzo Cosa si prova, appena uscito per Mondadori. Attraverso di lei l’amatissima autrice inglese di I love shopping racconta del cancro aggressivo al cervello che le è stato diagnosticato nell’autunno del 2022. Dell’intervento, della chemio e della radio. Dei canti di Natale che non ricordava più e di come ha dovuto imparare a camminare di nuovo. E di suo marito Henry, che le è stato sempre accanto. A lui dice anche un grazie speciale. Con una frase che Eve rivolge al marito Nick nel libro ma che vale per tutti coloro che si prendono cura di un malato di cancro: «È più dura per te che per me».
I parenti dei malati possono rivolgersi allo psico-oncologo
Malati oncologici, senza la malattia. Sono i caregiver familiari, spesso partner o figli. Affiancano il paziente e convivono con preoccupazioni e ansie, senza poterle manifestare all’interno della famiglia. «Vivono le stesse emozioni ma, mentre il paziente dalla diagnosi in poi viene integrato in un sistema e accudito dal punto di vista fisico e psicologico, i bisogni dei caregiver sono spesso ignorati» sottolinea Claudia Borreani, Responsabile Struttura Semplice Dipartimentale Psicologia Clinica all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. I tempi però stanno cambiando.
Iniziano a esserci dati consistenti sul carico psicologico che si porta perennemente sulle spalle chi assiste un malato. E capita sempre di più che al caregiver venga proposto lo psico-oncologo. «Uno dei vissuti che riportano i malati è la dipendenza dal familiare: questo li fa stare male, si sentono un peso» sottolinea Claudia Borreani. «Attraverso i colloqui, aiutiamo il caregiver a ritrovare la sua quotidianità, a elaborare il dolore, la malattia, ad allontanare i pensieri negativi. E spieghiamo che dimostrare nei fatti di avere degli spazi per se stessi è rassicurante anche per il paziente, lo fa sentire più autonomo».
Caregiver: chiedere aiuto e superare il senso di colpa
Non vivere come un tradimento una serata al cinema oppure l’aperitivo con le amiche, anzi. Avrai qualcosa da raccontare al tuo rientro o che ti farà sorridere nei momenti bui. Ritagliati anche una routine quotidiana che sia solo tua, come una semplice passeggiata: è una doccia di benessere per la mente. E impara a chiedere aiuto, a condividere le difficoltà, i bisogni, perché così “pesano” meno. «Alcuni caregiver mi hanno chiesto la possibilità di incontrarsi per uno scambio di idee» continua Borreani. «Abbiamo messo a punto una modalità via web che sarà oggetto di studio. Se – come speriamo – funzionerà, sarà un modello da condividere con altri centri oncologici». Oltre al team di psico-oncologi del centro che segue il tuo familiare, anche le associazioni di pazienti possono fornire informazioni o contatti utili per facilitare l’attività del caregiver: le trovi all’interno dell’ospedale.
Di Cinzia Testa