Poco più di un mese fa Sarah Everard, una 33enne londinese, è stata aggredita e uccisa da uno sconosciuto che l’ha seguita mentre rincasava dopo una cena fra amici. Le indagini hanno confermato che Sarah aveva preso molte delle precauzioni aggiuntive che ogni donna si sente costretta ad adottare per garantire la sua sicurezza in casi del genere: strada più lunga ma illuminata meglio, telefonate e messaggi al fidanzato per informarlo del percorso. Non è bastato a salvarla.

Ho ripensato a questo episodio, e alle manifestazioni di protesta che ha provocato ovunque, dopo aver visto su Instagram lo sfogo di Aurora Ramazzotti. Che è viva, per fortuna. E ha puntato il dito contro chi, ogni giorno, copre di apprezzamenti beceri le ragazze per strada: ieri lo chiamavamo fischietto, oggi catcalling, per sottolinearne meglio l’attitudine animale e molesta. Lo ha subito l’84% delle donne italiane, secondo l’Istat, e anche se sei uomo è difficile non concordare con chi lo ritiene la spia di un approccio predatorio e prevaricatore che può avere come drammatico epilogo la violenza fisica.

Che cosè la feelings appropriation

Non ricordo grandi amori, né letterari né reali, sbocciati dopo un «Abbellaaa» o una pacca sul sedere. Dovrebbe bastare questo a liquidare la questione, ricordando a ogni mio simile che ciò che lui chiama goliardia per molte donne è solo l’inizio di un incubo. Dovrebbe, ma non è così. Noi uomini abbiamo il dovere di fare molto di più. Ma cosa? E come? Il tema è scivoloso, perché ogni discriminazione rischia di amplificarsi quando una categoria si incarica di giudicare e indirizzare la vita di qualcun altro secondo convinzioni che sono le sue, e non quelle dell’interessato.

Gli americani, che sono bravi a dare per primi una definizione alle cose, l’hanno chiamata feelings appropriation: una distorsione che tutti hanno colto proprio dopo il caso Everard, quando la reazione a caldo di polizia e amministrazione comunale è stata consigliare a ogni donna di non uscire da sola la sera, arrivando persino a proporre un coprifuoco. Non per i potenziali stupratori e omicidi, ma per le loro possibili vittime. Credo che il primo passo da fare sia proprio riflettere su come parliamo di questo problema: continuando a inquadrare la violenza di genere come “qualcosa che capita alle donne” perpetriamo, magari inconsapevolmente, il concetto che siano loro ad avere la responsabilità di risolverlo.

Gli uomini sono i primi a banalizzare certi atteggiamenti

Anche nella mia esperienza gli uomini che dovrebbero essere in prima linea per combattere questo atteggiamento sono i primi a banalizzarlo. Perché se il problema è certamente culturale, non è per forza un fatto di sottocultura, tutt’altro: puoi essere istruito, antirazzista, di ampie vedute, partecipe delle battaglie femministe e di ogni altra minoranza, persino cresciuto – come è capitato a me – in un contesto totalmente matriarcale, ma la sostanza non cambia. Il pregiudizio di fondo resiste, quasi sempre. Che una donna vittima di violenza abbia preso o meno misure per la propria sicurezza in qualche modo è sempre colpa sua, di come era vestita, dell’orario in cui è rientrata, del luogo in cui si è fatta sorprendere. Stupro e femminicidio sono un abominio, ma non ci riguardano perché noi, la stragrande maggioranza di noi, non li commette e non può sentirsi responsabile per i crimini altrui.

Quando ridiamo a una battuta sessista

Quello che non riconosciamo è la responsabilità che abbiamo quando ridiamo a una battuta sessista, avalliamo commenti in cui si implica che una vittima di violenza se la sia cercata, o pensiamo che una collega ci abbia superato solo perché entrata nelle grazie sessuali di qualcuno. È capitato a tutti noi, inutile sostenere il contrario.

Ed è un meccanismo più banale e trasversale di quanto si immagini: siamo contro lo sfruttamento ma dimentichiamo di lasciare la mancia a chi ci ha portato la pizza; ogni 23 maggio sostituiamo la nostra foto profilo con quella di Giovanni Falcone e la sera stessa andiamo a comprare un pezzo di hashish o di coca che servirà a finanziare chissà quale altra strage; consideriamo i razzisti dei minus habens ma la sera, se incrociamo un immigrato, acceleriamo il passo; ridiamo quando l’idraulico che ci ha appena detto «Facciamo 50 euro senza fattura» inveisce contro lo Stato ladro. Siamo uno dei granelli di sabbia che inceppano il motore ma ci limitiamo a osservare il guasto sperando che sia qualcun altro a ripararlo. Ma chi?


Se avessi una figlia femmina, le consiglierei di reagire alla prima battuta, al primo insulto. Ma non sarebbe anche questo un modo di scaricare la responsabilità su di lei?


 

Gli uomini devono diventare parte attiva della soluzione

Se avessi un figlio maschio proverei a spiegargli che rimettere insieme i pezzi tocca pure a lui. Ma se avessi una figlia femmina, lo confesso, mi sentirei molto di più a disagio. Non saprei cosa consigliarle, se non di reagire al primo fischio, al primo insulto, alla prima battuta, alla prima molestia. Credo che la renderebbe una persona migliore e più consapevole. Ma non sarebbe anche questo, in fondo, un tentativo di scaricare sulle sue spalle – le sue e per osmosi quelle del genere femminile intero – anche il peso di chi, come me, ha fatto poco o nulla per disinnescare la situazione? È sufficiente aggiungere al quadro qualche pennellata di buona volontà, come le tante marce contro il femminicidio organizzate da uomini negli ultimi mesi? Probabilmente no, ma sono comunque passi nella direzione giusta.

Noi uomini dobbiamo diventare parte attiva della soluzione in tutti quegli ambienti, dalla scuola al posto di lavoro, dove oggi siamo invece parte inconsapevole del problema, replicando piccoli e grandi schemi comportamentali del passato. Dobbiamo smettere di commentare il fondoschiena della nostra collega o di osteggiare il suo comportamento perché magari, un giorno, il fondoschiena e il comportamento di nostra figlia non diventino una scusa per farle del male.

L’autore dell’articolo

Gianluca Ferraris, giornalista e scrittore
Gianluca Ferraris, giornalista e scrittore

Gianluca Ferraris, giornalista e scrittore, è ora in libreria con il romanzo Perdenti (Piemme). È il primo noir che ha per protagonista l’avvocato milanese Lorenzo Ligas. Ex marito e padre modello, ex socio di uno studio legale di grido, alcolizzato e solo, ha un unico modo per riscattarsi: difendere Jack Zero, meteora della musica pop caduta in disgrazia come lui, da un’accusa di omicidio. Per la procura il caso è chiuso, ma come in ogni giallo la verità si rivelerà più complessa.