Quando si parla di abusi e femminicidi, di solito si puntano i fari sull’inquietante conteggio delle vittime. Poi passa il clamore legato al singolo caso, i riflettori si spengono ma i numeri rimangono. Alcuni sono meno eclatanti, eppure fanno pensare. Nel 2013, per esempio, in Italia c’erano 188 centri antiviolenza e 163 case rifugio. Oggi i primi arrivano a quota 296, le seconde a 258. Un boom che non può passare inosservato, anche perché in realtà la cronaca ci racconta di strutture in affanno (non ultimo il caso della Casa internazionale delle donne a Roma), o che vivono con lo spettro della chiusura. È vero, come denunciano gli addetti ai lavori, che ha preso piede il cosiddetto “business della violenza” e tanti si improvvisano esperti pur di sedersi al tavolo dei fondi? Abbiamo cercato di capirne di più.
Ad aggiudicarsi i soldi sono spesso strutture che si occupano di povertà o migranti
Tra i primi a lanciare l’allarme c’è Raffaella Palladino, presidente di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza, l’associazione che coordina oltre 80 centri: «Dopo il 2013, anno del Piano straordinario del governo, questi luoghi sicuri hanno cominciato a moltiplicarsi. Sarebbe un fatto positivo, peccato che manchi trasparenza. Nel 2014 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato una normativa proprio per definire i centri e regolamentare così la concessione dei fondi del governo: devono essere organizzazioni nate per prevenire e contrastare il problema della violenza contro le donne, o comunque occuparsene in maniera prevalente, e devono vantare almeno 5 anni di esperienza. Nella pratica, però, non è così. Ogni Regione lancia dei bandi per distribuire i finanziamenti e, purtroppo, vi partecipa chiunque. Le istituzioni non verificano la documentazione oppure si accontentano dell’autocertificazione. In questo modo ad aggiudicarsi i soldi sono anche strutture che si occupano di povertà o migranti. Enti validi, ma che non hanno esperienza sul campo».
Non basta accogliere una vittima e aiutarla: bisogna stare al suo fianco per anni
La presidente di D.i.Re avrebbe anche una “black list” di strutture. «Conosco bene la situazione in Campania, perché è la mia Regione: e quindi mi chiedo perché mai debba arrivare tra i primi in graduatoria una onlus che ha sempre gestito uno sportello per la vita?». Abbiamo cercato di approfondire, interpellando l’associazione per dei chiarimenti, ma non abbiamo avuto risposte. Il problema, in ogni caso, riguarda parecchie altre zone d’Italia. Manuela Ulivi è avvocata e presidente della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, il primo centro italiano. «In Lombardia la Regione ha aperto un albo dei centri e ha istituito, con un decreto della Giunta, i criteri delle strutture: sono enti o fondazioni che abbiano personale con esperienza di almeno 3 anni. Significa che chiunque può occuparsene, che basta aver fatto il volontario per 36 mesi per aprire un centro ed è rischioso. Non è una questione di singoli professionisti, non è sufficiente accogliere una vittima e aiutarla nella denuncia, bisogna stare al suo fianco per anni. Il governo ha promesso di triplicare i fondi e di passare da 10 a 30 milioni di euro annui totali: ottenere 50.000 euro, la cifra media per struttura, fa gola a molti».
Nel mirino ci sono anche i costosissimi corsi di formazione per operatori
I soldi non girano solo nei centri o nelle case rifugio. «Si stanno moltiplicando i corsi di formazione per operatori» avverte Raffaella Palladino di D.i.Re. «Vengono proposti da atenei e associazioni e costano anche migliaia di euro. Noi crediamo invece che ci si prepari a questo mestiere sul campo: i nuovi arrivati fanno pratica con le nostre operatrici storiche, è un percorso lungo che dura almeno 9 mesi ed è gratuito». Eppure è proprio qui che si gioca il futuro. «La preparazione iniziale e continuata dei protagonisti è la chiave di volta per risolvere il problema» spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea e seconda vicepresidente del Grevio (Gruppo esperti per il contrasto della violenza sulle donne) al Consiglio d’Europa. «Master e specializzazioni sono i benvenuti, ma questi temi si dovrebbero affrontare già negli studi universitari di base. Assistenti sociali, medici, infermieri e avvocati dovrebbero conoscere il fenomeno e saper gestire casi concreti».
Serve una rete tra forze dell’ordine, servizi sociali, tribunali e datori di lavoro
Strutture che si improvvisano, operatori poco esperti: se questo è il quadro, anche l’aiuto alle vittime viene messo a rischio. «Il problema non riguarda solo la diffusione dei centri» continua la vicepresidente di Fondazione Pangea Simona Lanzoni. «Anzi, secondo il Consiglio d’Europa dovrebbe essercene uno ogni 100.000 abitanti e siamo ben lontani da raggiungere questo traguardo. Per l’Istat questi luoghi di aiuto e di rifugio accolgono solo il 4,9% delle donne maltrattate, la maggior parte chiede aiuto a parenti e amici, poliziotti, legali. Quindi non possiamo focalizzarci solo sulle strutture e polemizzare su tipologie, connotazioni politiche o religiose, perché qui serve una rete territoriale capillare con la partecipazione di tutti gli operatori coinvolti. Lo dice anche la Convenzione di Istanbul, il Trattato contro la violenza di genere approvato dal Consiglio d’Europa: ogni Stato deve mettere a disposizione ogni mezzo per aiutare le vittime, con il supporto anche di forze dell’ordine, servizi sociali, mondo della giustizia e del lavoro, tutti con l’adeguata formazione professionale. Altrimenti continuerà a succedere ciò che è accaduto proprio a una mia amica: un poliziotto ha cercato di dissuaderla nel sporgere denuncia sotto Natale “perché è meglio trascorrere le feste in famiglia”. Oppure a Sara, una donna con 2 figli che ha vissuto in una casa rifugio per alcuni mesi ma non ha ancora un’occupazione dignitosa e una casa dove vivere».
In viaggio con le operatrici
«In questi luoghi dove passano il dolore, la rabbia, le solitudini, le paure delle donne maltrattate ma a volte anche delle stesse operatrici, ci sono una vitalità, e una voglia di lottare incontenibili». Luca Martini è un uomo, e questo è già un fatto staordinario. Si occupa di risorse umane, ma segue anche il mondo delle associazioni. Nel libro Altre stelle (Mimesis) racconta il suo viaggio da Bolzano a Catania per dare voce alle donne che, tra mille difficoltà, lavorano nei Centri Antiviolenza del nostro Paese. Un punto di vista inedito, quello maschile, che raccoglie la fatica, la dedizione, la professionalità di chi si dedica alle vittime di questa piaga sociale. «Qual è il ruolo degli uomini in questo scenario?» si chiede Luca. «Non essere violenti è il primo passo. Ma servono anche ascolto, collaborazione, supporto».