Oggi le diagnosi imperversano. È impossibile ormai trovare una classe di scuola primaria in cui non ci sia neppure un bambino accompagnato da un qualche tipo di diagnosi e/o di conseguente certificazione. Siamo in presenza di una generazione scompensata dal punto di vista mentale, con disturbi neurologici e psichiatrici così gravi che comporteranno conseguenze altrettanto significative nell’età adulta? Dobbiamo preoccuparci del nostro futuro? Oppure questa esplosione di diagnosi e certificazioni è (solo) un segno inquietante dei nostri tempi?».
A questa domanda che il pedagogista Daniele Novara fa nel suo ultimo libro “Non è colpa dei bambini” (Bur Rizzoli) ogni insegnante ma anche ogni genitore ha il dovere di rispondere.
Questo boom di diagnosi è dovuto all’incapacità della scuola di svolgere il suo ruolo pedagogico.
Premesso che l’incremento delle segnalazioni dei disturbi specifici dell’apprendimento e dell’autismo è dovuto anche alla presenza di leggi che finalmente riconoscono questi disagi, in questi anni stiamo assistendo ad un incremento di “etichette” sulla pelle dei bambini che va analizzato.
Gli insegnanti non sanno riconoscere i problemi
I nostri docenti sono davvero in grado di riconoscere un dislessico, un disgrafico, un discalculico, un disturbo dello spettro autistico? Non voglio colpevolizzare nessuno ma dobbiamo parlarci con franchezza. Nei giorni scorsi ho posto l’interrogativo a delle colleghe: «Voi tra questi venti bambini avreste la capacità di capire chi è dislessico? Chi di voi ha avuto una formazione per poter individuare i segnali della dislessia?». Nessuno aveva mai partecipato ad un corso sul tema. Nessuno, compreso chi scrive, aveva le competenze per poter discernere un discalculico.
Una scuola che “segnala” i bambini ai centri di neuropsichiatria senza avere le conoscenze necessarie ha fallito il suo ruolo.
Non sempre chi ha difficoltà ha “bisogni speciali”
Chi sono i bambini iperattivi? E i ragazzini “Dop”, disturbo oppositivo provocatorio? E i Bes, bisogni educativi speciali? Oggi basta che un bambino si alzi dalla sedia tre volte in un’ora e c’è qualcuno che chiama la mamma o il papà per avanzare l’ipotesi di iperattività.
Sotto la sigla Bes hanno messo dai figli dei separati, ai ragazzi migranti, a chi vive in condizioni socio-economiche svantaggiate.
Lo dice bene Novara: «Sembra che il percorso di un bambino proceda per compartimenti stagni e che non sia possibile analizzarlo nel suo complesso per cercare di capire quali sono gli elementi da cui potrebbero scaturire le difficoltà e sui quali potrebbe intervenire».
Vogliamo guardare agli insegnanti: quanti sono i docenti Bes e quelli Dop? Forse dovremmo aggiungere anche qualche altra sigla nel caso dei maestri, professori e dirigenti.
Le sigle disorientano i genitori
Altra questione: i genitori. Ho visto mamme e papà sgranare gli occhi spaventati di fronte ai neuropsichiatri oppure cercare a tutti i costi una diagnosi o ancora non capire nulla delle relazioni dei terapisti o delle parole degli insegnanti: «Guardi suo figlio è un Bes. Lo abbiamo valutato nel Gli. È necessario un Pai e chiederemo anche un Aec». Ci sono scuole che nei loro siti hanno persino un glossario.
Le segnalazioni sono in crescita
Ma guardiamo anche ai dati. L’ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna è quello con i numeri più recenti per quanto riguarda i Dsa: nell’arco di quattro anni l’incremento del numero di segnalazioni è stato del 139%, si è passati da 10.526 casi nell’anno scolastico 2012/2013 a 25.135 dello scorso anno.
A Rimini l’aumento nell’arco di tempo sopra descritto è stato persino pari al 623% nelle superiori ma anche a Ferrara e a Forlì ha superato il 300% di incremento. Sono dati che fanno riflettere.
Di fronte a tutto ciò la soluzione che mi trova d’accordo la suggerisce Daniele Novara: dobbiamo recuperare le competenze pedagogiche dei docenti. Non è un caso se nel suo libro il sostantivo “diagnosi” appare per 50 volte mentre la parola “educazione” per 72.
È da quest’ultima che dobbiamo ripartire. Spesso un bambino Bes è “solo” un ragazzo che cerca la nostra fiducia, che ha bisogno di essere ascoltato, che ha la necessità di trovare un docente che abbia pazienza e che perda tempo con lui.
Parliamo di iperattivi: ma cosa fa la scuola per loro? A partire dall’aula abbiamo ancora spazi dove ci sono i banchi divisi uno ad uno perché il maestro preferisce la bella lezioncina frontale.
Inultile certificare se la scuola non risponde
Quali benefici possono portare le diagnosi se la scuola non risponde con misure reali, concrete adeguate?
Mara, che ha il suo bel certificato e che frequenta il centro di neuropsichiatria, qualche sera via via chat mi scriveva: «Ciao maestro alle medie faccio schifo. Ho preso 53,4/100 nella verifica di matematica. Non ce la farò mai».
Ecco se la scuola di fronte a Mara non comprende che la vera sfida non è giocata dalle percentuali di una verifica ma dalla fiducia, ha perso la partita. Ma l’hanno persa anche i terapisti. E soprattutto l’abbiamo persa tutti noi perché Mara non andrà all’università e entrerà a far parte di quelle percentuali di abbandono che di tanto in tanto leggiamo sui quotidiani.