L’ultima è stata la “Women Supporting Women”, una campagna che ha riempito i social, Instagram in particolare, di selfie e ritratti in bianco e nero di donne sorridenti, in scenari panoramici, intente a leggere un libro, abbracciare un familiare, in compagnia del cane. Scatti di normalità, condivisi da donne comuni e attrici come Kerry Washington e Reese Whiterspoon, semmai un po’ patinati: un’innocente scusa, insomma, per postare una foto di sé particolarmente ben riuscita, con l’hashtag #challengeaccepted, e al contempo coinvolgere le proprie amiche a fare lo stesso, in una sorta di catena di Sant’Antonio del selfie più bello. «Amo questo modo semplice di supportarci a vicenda. #challengeaccepted», ha scritto la supermodella Cindy Crawford, condividendo uno scatto di lei, bellissima come sempre, sulla spiaggia. L’intento era quello di “supportare” le donne e promuoverne l’empowerment, difficile parola inglese che potrebbe essere tradotta con la perifrasi “essere in grado di sviluppare il proprio potenziale”. Ma le foto in bianco e nero ci aiutano a raggiungere il nostro potenziale?
«Mentre le intenzioni sembravano buone e anche vagamente femministe, non c’è stato, almeno all’inizio, nessun punto innovativo. Il messaggio generale sembrava semplicemente che le donne sono belle e meravigliose e che dovremmo aiutarci a vicenda. Ma come campagna di sensibilizzazione, nella migliore delle ipotesi, è inutile. Lo sappiamo già. Inoltre, dov’è la sfida? Per almeno la metà degli utenti di Instagram sarebbe sicuramente una sfida maggiore non pubblicare selfie per un giorno», ha scritto Nadine von Cohen sul Guardian. E in effetti le fotografie condivise in questi giorni, seppur bellissime e assolutamente innocue, a parte la soddisfazione di postare una foto in cui si è venute particolarmente bene, dicono poco.
Negli ultimi anni, abbiamo imparato quanto è potente la cassa di risonanza dei social e come aiutino milioni di persone a incontrarsi e organizzarsi: basta pensare al #MeToo, e ai cambiamenti e alle discussioni che ha avviato nel mondo su abusi e molestie sulle donne. Oppure a #BlackLivesMatter, che ha portato in primo piano le violenze a sfondo razziale e il razzismo sistemico, non solo in America.
All’inizio di giugno, mentre nelle città americane infuriavano le manifestazioni per la morte di George Floyd, i social si erano riempiti di quadratini neri con l’hashtag #blacklivesmatter per il cosiddetto “Blackout Tuesday”, campagna social lanciata da due donne afroamericane per portare l’attenzione sulle lavoratrici e i lavoratori neri dell’industria musicale americana e diventata ben presto, senza che potessero prevederlo, un’enorme (e altrettanto vaga) campagna per esprimere il proprio antirazzismo. Un quadratino nero sul profilo e il nostro lavoro era finito. Gli attivisti di Black Lives Matter, però, hanno dovuto ben presto chiedere di smettere di usare l’hashtag ufficiale, perché intasava la timeline e il flusso di notizie di chi era in strada a protestare contro gli abusi della polizia.
Qualcosa di simile è successo anche con i ritratti in bianco e nero. L’hashtag #ChallengeAccepted era già stato utilizzato in passato, sempre come generico collettore di “solidarietà femminile”, e non è facile risalire all’origine di questa rinnovata popolarità. Sul New York Times, Taylor Lorenz ha infatti smentito che la nuova ondata di post fosse collegata alle proteste scoppiate in Turchia dopo il brutale omicidio della 27enne curda Pinar Gültekin, uccisa dal suo compagno lo scorso 16 luglio (spesso le foto delle vittime di femminicidio sui media turchi sono in bianco e nero). Allora perché abbiamo condiviso queste foto? Cortocircuiti dell’attivismo online, che funzionano bene da promemoria e rendono conto di quanto sia difficile, oggi, individuare una direzione chiara in molte delle cose che succedono online. Instagram non è ancora la vita reale, ed è lì, alla fine, che le cose devono cambiare.