Ho una lettera fra le mani. Ne conosco a memoria la grafia, le sbavature, le onde a mo’ di cancellature, le virgole. Le ombre e gli aloni pressoché invisibili lasciati dal tempo. Come se anche la carta, proprio come la pelle, potesse essere scavata di cicatrici. Rincorro le parole con lo sguardo e con il dito indice, rallentando in corrispondenza di quelle che finiscono per “a”, perché papà era solito allungarne la gambetta per qualche millimetro portandola a sfioro sul margine destro del foglio. Un banale foglio A4 piegato due volte, sommariamente, da due mani grandi e dolci dei cui movimenti oggi rimangono quei due solchi non esattamente perpendicolari. Il mio perfezionismo vorrebbe annullare quelle pieghe e riallineare gli angoli del foglio. Qualcos’altro, però, mi impedisce di farlo: quelle pieghe imprecise rendono quella lettera, semplicemente, quella lettera. Unica, diversa da ogni altra. Da ogni altra altrettanto preziosa custodita in un degno portagioie, una scatola rettangolare di latta con una stampa in stile coquette, che soggiorna nel secondo cassetto accanto alla scrivania, nella mia camera da letto. Da qualche tempo quello è l’indirizzo di residenza di ciò che di più prezioso ho al mondo dopo chi lo ha scritto: lettere.
Ritrovare vecchie lettere, a volte, significa ritrovare se stessi
Se della mia passione per la scrittura ho dei flash piuttosto nitidi, della mia passione per le lettere non ricordo particolari segni oltre ai minuti in cui, a Bergamo centro, i miei occhi restavano incollati alla vetrina della storica cartoleria Mariani. Di questo lato oggi così forte della mia autocoscienza, nessun bagliore sopravvissuto nella memoria, nessuna “pepita d’oro del futuro ritrovata nel passato” come le chiama Pablo Trincia nel suo libro Come nascono le storie. Almeno fino a qualche tempo fa, quando un’ex compagna di scuola elementare mi ha mandato su WhatsApp la fotografia di una lettera, corredata da questo messaggio: “Sono passati alcuni anni, ma magari ti fa piacere sapere che ce l’ho ancora”. Mio papà, creativo DOC, mi aveva insegnato a dipingere e a scrivere usando il caffè. L’effetto era meraviglioso, lo adoravo: un tratto acquarellato e profumato, del colore della sabbia. Su quello strano ma affezionato foglio scrivevo alla mia amica Alessia di trovarmi in montagna, che amavo per la natura e per il silenzio. E che poi però avevo pensato alla scuola, e a lei, e al fatto che averla in classe con me mi rendeva felice. Dopo almeno dieci anni, la foto di quella lettera – firmata “la tua amica Marta” – era appena diventata la prova tangente di qualcosa che probabilmente mi apparteneva da sempre e che da sempre caratterizza il mio modo di esprimere l’affetto, entrare in empatia, elaborare il dolore. Come si dice oggi, la prova di quello che è sempre stato il mio love language.
Scrivere lettere è il mio love language
Il “linguaggio dell’amore” è il modo in cui una persona preferisce esprimere il proprio affetto, o quello che comunque le viene più naturale. Ce ne sono cinque: parole, contatto fisico, regali, tempo di qualità e atti di servizio. Ecco, semplicemente, i miei sentimenti diventano più limpidi quando si trasformano in lettere. Allego altre prove: sono del team il-biglietto-vale-più-del-regalo e nel mio armadio c’è uno scomparto interamente dedicato ad avvalorare questa mia tesi. Brush pen per l’hand lettering, carte da lettera di ogni sorta, francobolli decorativi, mollette da abbinare con rigore, perline di ceralacca di tutti i colori dei quadri di Kandinskji e un timbro con la lettera “M” per sigillare i miei sproloqui d’affetto. A volte qualcuno trova l’ardire di dirmi che, se dovessi fallire come giornalista, potrei sempre realizzare biglietti e lettere su commissione. E io rispondo: never say never!
Che significato hanno le lettere per una Gen Z?
A questo punto, però, devo fare anche un’ammissione di colpa. Per quanto io ami scrivere le lettere, sono pur sempre nata nell’anno in cui sono cadute le Torri Gemelle e ho pur sempre trovato l’amore sui social, mica all’oratorio. Non mi sono familiari né la sinfonia della macchina da scrivere né il suono tra il metallico e l’esoterico dei primi modem (così mi è stato descritto da qualcuno). Va da sé che non ho nemmeno mai percepito la corrispondenza scritta come una modalità di comunicazione continuativa e senza alternative. Le mie lettere sono sempre state un messaggio d’amore, certo. Sicuramente speciale e sicuramento sentito, sì. Ma pur sempre parallelo ai vocali di WhatsApp, alle storie di Instagram e alle dediche in formato password del Wi-Fi come dicono i Pinguini Tattici Nucleari. Poi però, un giorno di giugno, qualcosa è cambiato. Un’amica del cuore è volata in Perù, per una lunga missione umanitaria, e non ha portato con sé il telefono. Non è stata una dimenticanza, ma una scelta consapevole. In quel suo forte e improvviso tirare il freno della macchina quotidiana della vita, in un certo senso ha obbligato anche noi che le stavamo accanto, se non ad adeguarci alla sua velocità, quantomeno a trovare un punto di incontro tra il nostro ritmo, spasmodico, e il suo, dilatato.
Un nuovo modo di esserci
Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’ / E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò. Come Lucio Dalla, dunque, anch’io la scorsa estate mi distraevo scrivendo una lettera a una cara amica. Niente di nuovo, sulla carta. E allora perché questa volta mi sentivo diversa? Non stavo scrivendo le righe del compleanno, della laurea, di Natale. Non stavo rimarcando il mio affetto come si è soliti fare in certe circostanze. Stavo proprio scrivendo le righe di intere giornate. Non avevo altro modo di raccontare alla mia amica l’evolversi della mia vita, né per chiedere a lei della sua, cinque ore indietro. Non c’era né spazio né modo per l’aggiornamento in tempo reale. Si trattava di fare un bilancio del mese precedente, di scegliere cosa valesse davvero la pena lasciar entrare nel serbatoio della stilografica e cosa no. Le notizie grandi, imprescindibili, o forse quelle più piccole, a volte meno life-changing ma più profonde? Un traguardo lavorativo? Il ritrovato sapore delle caldarroste a ottobre? Una nostra fotografia rinvenuta per caso? L’arrivo di una nuova coinquilina? I sorrisi di una mamma che sanno di primavera anche in pieno novembre? Rispondendo a domande come queste, ho scoperto un modo del tutto nuovo di scrivere le lettere, quasi più magico.
Hai presente le ghirlande di compleanno fai-da-te? Quelle composte da un filo cui siamo noi ad agganciare, una per una, le lettere in cartone che alla fine danno la scritta “AUGURI”? Ecco, ora lo immagino un po’ così il legame tra me e la mia amica Cristiana, che mentre scrivo si sta addormentando sotto il cielo di Machu Picchu. Un filo sottile ci unisce, lungo migliaia di chilometri, e noi lo stiamo nutrendo di lettere, parole, racconti. Poco alla volta. Prima in un senso, poi in un altro. Prima le scrivo io, spedisco, e rimango in attesa. Poi scrive lei, spedisce, e rimane in attesa. Ma è un’attesa bella, tipo quella che precede il matrimonio: non ci si può vedere ma si sa con assoluta certezza che ci si sta pensando. Così, facendo quello che ho sempre fatto, ho scoperto di poterlo fare in un modo diverso.
È come se all’improvviso al mio arcobaleno si fosse aggiunto un colore, un modo inedito di vedere le cose, di connettersi alle persone, di misurare il tempo, di mettere per iscritto la propria vita, di essere ed esserci.
Tutti gli indirizzi perduti: Laura Imai Messina e l’Ufficio postale alla deriva
Ma ti dirò di più. Avevo scoperto anche una nuova forma dello stare bene. E forse, a ben guardare, era indipendente dall’eventualità che quel sigillo in ceralacca con la lettera “M” un giorno qualcuno l’avrebbe tolto oppure no. Ne ho avuto conferma leggendo il libro Tutti gli indirizzi perduti di Laura Imai Messina (Einaudi). Il romanzo parla di Risa, una ragazza che si è offerta di catalogare le tantissime lettere arrivate in dieci anni all’Ufficio postale alla deriva dell’Isola di Awashima, in Giappone. Lì, in quell’ufficio minuscolo, viene conservata tutta la corrispondenza imbucata da ogni parte del mondo, ma che non è possibile recapitare al destinatario. L’Ufficio postale alla deriva esiste davvero, su un’isola con non più di centocinquanta abitanti, nel mare interno di Seto. C’è chi scrive al marito che non c’è più, chi al proprio cuscino, chi chiede perdono a una lucertola a cui da bambino ha rubato la coda, chi si rivolge alla vecchia vicina di casa che gli leggeva libri quando era piccolo, chi manda cartoline alla madre che diventerà.
«L’Ufficio postale alla deriva di Awashima ha intercettato un bisogno universale: la necessità di dire l’indicibile», mi ha spiegato Laura, l’autrice del romanzo, che vive in Giappone e su quell’isoletta a forma di elica ci è andata diverse volte, tra migliaia di indirizzi perduti. La prima lettera che lesse ad Awashima e che la colpì immensamente fu di una donna che si rivolgeva all’inventore del fon per ringraziarlo delle uniche carezze che, grazie a quella invenzione, aveva ricevuto dalla madre. «In quel gesto avvertiva una piccola gioia e, nello scrivergli una lettera, intendeva esprimere tutta la propria riconoscenza». Grazie al libro di Laura Imai Messina ho scoperto l’esistenza di un posto prodigioso, così piccolo ma così grande nel prendersi cura dei sentimenti che migliaia di individui affidano a carta e penna senza conoscerne precisamente né il destino né la destinazione. E mi sono chiesta: che valore ha, oggi, una lettera? Dove sta il senso di scriverla, indipendentemente dal fatto che verrà consegnata, aperta, letta? «Scrivere è una forma del pensare – continua Messina – significa riuscire a concentrarsi con una lucidità e un’evidenza maggiori su cose inafferrabili o comunque difficili da riferire. Scrivere al solo scopo di scrivere è un’azione di pensiero purissima. Aspettare una risposta significa, a confronto, diminuire il gesto, cedere la responsabilità della riuscita dell’operazione. Ci avrà letto? Cosa avrà colto delle nostre parole? Più importante è domandarsi: cosa penso? Cosa voglio dire?
Riflettere su qualcosa, concedersi la possibilità di ragionare con calma è un modo per tornare a se stessi, sui propri passi, e quindi a casa
Non scrivere lettere a qualcuno per ricevere risposta bensì farlo allo scopo puro e semplice di scrivere quelle lettere. Succede allora una magia: finalmente ci si chiarisce il sentimento, ci si accorge di pensieri che erano in noi ma che, mai interrogati, non si palesavano», mi ha detto Laura.
Sedersi, e scrivere una lettera
Senza contare che scrivere una lettera richiede uno sforzo, un processo cerebrale più lento, l’uso di tutta la mano e non solo dei polpastrelli. Si deve scegliere la carta, cercare una penna, dire per iscritto “Caro” o “Cara”, centellinare le parole facendo i conti con uno spazio limitato, piegare la lettera, chiuderla in una busta, sigillarla, metterci un francobollo, uscire di casa per imbucarla. «Tempo, questi gesti concreti significano per la precisione “tempo” – aggiunge la scrittrice – La concretezza ci aiuta a fermare il ricordo. È il motivo per cui fatichiamo a ricordare una call su Zoom più di un incontro al bar con qualcuno. Serve rimpinzare di tempo e azioni qualcosa per garantirgli memoria». Tempo e azioni. Ne parla a suo modo anche George Clooney, che è solito scrivere a mano messaggi d’amore alla sua Amal, lasciandoli sulla scrivania o sotto al cuscino:
Credo profondamente nello scrivere lettere. Ne ho di Paul Newman, Walter Cronkite, Gregory Peck. Le ho incorniciate in casa mia. Un messaggio non sarebbe stato lo stesso. Forse è una cosa generazionale e non sarà più così fra vent’anni, ma per me è importante che qualcuno si sia seduto e abbia scritto una lettera
Sedersi e scrivere una lettera. Se ci pensi, per millenni questo è stato il principio d’ogni comunicazione. Come scrive Simon Garfield nel suo testo L’arte perduta di scrivere le lettere (TEA), «una volta il mondo ruotava intorno alla loro trasmissione; erano il lubrificante delle interazioni umane. Indicavano l’ora a cui ci saremmo presentati a cena, contenevano il resoconto di una giornata meravigliosa, descrivevano le gioie e le sofferenze più intense dell’amore. Doveva sembrare impossibile che un giorno il loro valore sarebbe stato dato per scontato o messo da parte. Un mondo senza lettere sarebbe sicuramente stato un mondo senza ossigeno». E invece, l’ossigeno c’è ancora. Loro, le lettere, un po’ meno. Ora ci sono le e-mail, i messaggi di WhatsApp, i DM di Instagram, la “posta in arrivo” di LinkedIn e TikTok. Qual è l’ultima volta che hai scritto una lettera, una vera, con carta e penna?
Mi è concessa la nostalgia?
«Quant’è lontano il ‘900, visto da qui. Quanto siamo cambiati. Ci scrivevamo. Ci raccontavamo nel profondo. Per certi versi rimarrà un’epoca molto più romantica di questa. Perché per contattare qualcuno spesso dovevi fare uno sforzo. […] Adesso che gli sforzi non esistono praticamente più, non facciamo nemmeno quello di cercarci. Abbiamo affidato tutto ai nostri pollici. Ormai per spedirci un regalo o scriverci “come stai”, bastano quelli».
Non posso riconoscermi in tutte le parole del post di Pablo Trincia in cui mi sono imbattuta. Il motivo è molto semplice: io, nel ventesimo secolo, non esistevo. Inutile fare la nostalgica per qualcosa che nemmeno ho vissuto. Inutile fare un’ode all’«arte perduta di scrivere le lettere» se quell’arte non l’ho nemmeno imparata con naturalezza (o quantomeno non con la stessa naturalezza con cui ho imparato a navigare su Internet o a tenere in mano un iPhone). Non voglio fare l’oscurantista quando controllare la posta elettronica è la mia prima azione del mattino e l’ultima della sera, nonché qualcosa che faccio in continuazione durante la giornata. Di certo non controllo con altrettanta apprensione che sia passato il postino… Come posso rimpiangere qualcosa che non ho sperimentato? Non posso, ovvio. Però posso rimpiangere qualcosa che sento mancarmi. Qualcosa che so esserci stato, un tempo, anche se io non l’ho potuto vivere. Qualcosa che però ho riscoperto proprio scrivendo lettere. Tipo la lentezza, la gentilezza, la cura. Il lusso di riflettere più a lungo prima di scrivere. Uno spazio più protetto in cui dire “ti voglio bene”. Un’eredità d’affetto da mettere sotto il cuscino e a cui fare ritorno fisicamente, non solo scorrendo chat o mail in grassetto. La possibilità di scrivere a chi non c’è più per il Servizio Telefonico, ma c’è ancora per me. La capacità di distinguere e ricordare la grafia delle persone, uniformata dal font di WhatsApp. E, infine, un tempo dilatato in cui concedermi fragile, riconoscente, spezzata o raggiante. Insomma, quella che sono in un certo istante. Nel romanzo di Laura Imai Messina, il papà di Risa dice alla figlia: «Nelle lettere ci sono dentro cose ancora più importanti dei soldi. Cose che la gente normalmente non riesce a dire a voce e allora le scrive. Lo fanno perché, immagino, scrivere le fa sentire bene». E la scrittrice ha aggiunto: «Nel linguaggio non c’è solamente una cultura ma anche l’architettura del pensiero di una persona. Le parole che usiamo, il modo che abbiamo di rivolgerci agli altri e a noi stessi, i termini che circolano nelle nostre menti per arrabbiarci, rassicurarci, farci forti, raccontano la nostra cartografia interiore».
Il senso di scrivere le lettere è… scriverle
Le persone hanno bisogno di scrivere. Ho capito che, per alcune di loro, farlo coincide con sopravvivere
Lo ha detto il signor Baba, il direttore dell’Ufficio postale alla deriva. Se le avessi spedite, ora sui suoi scaffali ci sarebbero anche le lettere che adesso mi trovo accanto. Sarebbero in Giappone su quell’isola minuscola a forma di elica perché sono indirizzate al mio papà. Destinatario non trovato, lettere mai recapitate, lettere mai lette. Proprio come le settantamila approdate sulle coste di Awashima, «messaggi in bottiglia lanciati senza troppe illusioni nel mare. Perché tutto il senso dello scrivere queste lettere è precisamente scriverle. Scriverle per scriverle, non perché vengano lette».