C’è una parola in assenza della quale l’ingranaggio della mia famiglia non riesce a ripartire. Abbiamo imparato a pronunciarla tutti, anche i più refrattari. E a farlo senza virgole e senza ma. La parola in questione, l’avrete capito, è “scusa”. Detta così, con le lettere minuscole. Magari sussurrata. Si fa attendere, a volte per giorni, però quando arriva è la password che fa ripartire il tempo, che rimette in moto le relazioni, lentamente, senza scorie tossiche.
Ho imparato a pronunciarla anche sul lavoro, misurando il disagio che provoca nell’interlocutore, chiunque esso sia. «Non voglio le tue scuse, voglio che tu capisca» mi sento dire. «Ma è perché ho capito che ti chiedo scusa» rispondo. E la relazione riparte. Io ho una nuova occasione e cerco di non sprecarla.
In un interessante articolo su The Atlantic, Megan Garber racconta che c’è stato un tempo in cui nella vita pubblica americana chiedere scusa era considerato un segnale di forza e un modo efficace per gestire le crisi. Lo utilizzarono John F. Kennedy dopo il fallimento dell’invasione di Cuba, Ronald Reagan all’indomani dello scandalo Iran-contras, George W. Bush dopo l’uragano Katrina. Fino all’apoteosi di Barack Obama e del suo cosiddetto “tour delle scuse” nei Paesi che furono nemici degli States.
Poi è arrivato Donald Trump, dice la giornalista, che ha trasformato la sua refrattarietà alle scuse in un’identità politica. «E così siamo entrati in una nuova era, quella del potere come impunità, non come responsabilità». È ciò che stiamo vivendo in Italia adesso. I politici non chiedono scusa, né per il loro linguaggio, che spesso giustifica l’escalation di odio a cui assistiamo, né per gli errori del passato, che determinano i disastri del presente. Neppure i giornalisti chiedono scusa per le parole tossiche a cui ricorrono o per le non notizie a cui fanno da megafono. Anzi, si prendono gioco di chi chiede scusa, mettendone in discussione i modi e la reale intenzione.
Sarò condizionata dalla mia dinamica familiare, eppure in ogni gesto di scusa, anche il più opportunistico, io leggo sempre un punto e a capo, una ripartenza. Una vittoria del dialogo e del compromesso. Non c’è una seconda possibilità senza prima aver chiesto scusa. Ecco perché il sindaco di Biella, nelle sue pubbliche scuse rivolte a Liliana Segre per non averle dato la cittadinanza onoraria, mi è parso degno di stima e quasi esemplare nel contesto politico attuale. Starà a lui non sprecare la seconda chance che ha saputo regalarsi.