È il medico che tutti vorremmo. Quando saluto Gaya Spolverato, alla fine della nostra chiacchierata, penso che se dovessi definirla in una riga, userei proprio queste parole. Preparata, stakanovista, la voce calma di chi è abituata a prendersi cura della salute delle persone, lavora all’ospedale di Padova, è docente all’università ed è una delle finaliste del premio Donna dell’anno 2020 di Innovation Future School (vedi sotto).

«Quando mi hanno chiamata per annunciarmi la candidatura, sono rimasta senza parole: mi hanno detto che sono un modello per le giovani. Non potrei essere più orgogliosa». Parla di corsa questa 36enne. E non è una frase fatta: è appena uscita dalla sala operatoria e la aspettano le visite in reparto, le lezioni in ateneo e una giornata che è sempre troppo corta. «Spero di avere un po’ di tempo per me, per Gaya, invece prende il sopravvento la dottoressa Spolverato. Aiuto, avrò un problema d’identità!» scoppia a ridere.

Chi è Gaya Spolverato?

«Sono una chirurga oncologa, la mamma di Achille, 21 mesi, e la moglie di Sergio. Amo follemente il lavoro e sono ripagata dai miei successi, ma il problema è che ci dedico in media il 70% della settimana, a volte il 90%. E non avrò mai, a pari merito, quello che ha un mio collega maschio».

GAYA SPOLVERATO chirurgo oncologa
Gaya Spolverato

Per questo ha creato l’associazione Women in Surgery Italia?

«Sì. Un giorno io e la dottoressa Isabella Frigerio, l’altra fondatrice, eravamo in sala operatoria per un intervento di alto livello per un tumore al pancreas. Ci siamo guardate intorno e abbiamo notato, con stupore, che in quella stanza eravamo tutte donne. Allora abbiamo capito che finalmente qualcosa stava cambiando e dovevamo raccontarlo. Non esisteva un’associazione di chirurghe nel nostro Paese, non sapevamo nemmeno quante facessero questa professione. Così ci siamo date da fare: oggi siamo 130, sparse in tutta Italia».

Quali sono i vostri obiettivi?

«Le dico solo una cosa: come mai oggi le ragazze rappresentano il 55% degli iscritti a Medicina, e il 60% degli specializzandi in Chirurgia, ma poi meno del 5% occupa ruoli importanti? Il nostro scopo è aumentare quest’ultimo numero. È un mondo in mano agli uomini e vogliamo cambiarlo. Le chirurghe che operano davvero sono pochissime perché i primari le relegano negli ambulatori. E, per una legge assurda, quando rimangono incinte non possono più entrare in sala. Il divieto è motivato dal rischio, perché è un luogo in cui si possono contrarre infezioni: un rischio che però non è dimostrato da ricerche e dati, tanto che io mi sono battuta come una leonessa per rimanere in prima linea il più possibile anche quando aspettavo il mio piccolo. In genere, invece, bisogna fermarsi per oltre un anno, ma in questo mestiere perdere la mano ti costa la carriera. Tutti questi pregiudizi vanno cancellati».


«Le ragazze sono il 60% degli specializzandi in chirurgia. ma, per una legge assurda, quando restano incinte non possono più entrare in sala operatoria e si devono fermare per un anno. In questo mestiere, però, perdere la mano ti costa la carriera».


Lei li ha subiti?

«Fin dal primo anno a Medicina. quando ho detto che avrei voluto fare il chirurgo, il professore mi ha gelato con una sola frase: “Ma lei è una donna!”. Non conto più i pazienti che mi chiedono se sarò io a operarli e se sarò in grado di farlo. All’inizio ci rimanevo male, poi ho imparato a diventare ancora più irreprensibile e rispondo: “Se non fossi sicura di essere la sua opzione migliore non lo farei”. E ci sono i colleghi che ancora fanno il ragionamento bionda e bella uguale oca. Ieri ho operato una donna e oggi sono andata a trovarla in Rianimazione insieme al mio specializzando. Appena sono entrata il medico di turno si è rivolto a lui: pensava che fosse il mio capo perché è un uomo, visto che di solito funziona così. Ma con me non funziona, anzi se subisco una discriminazione mi viene voglia di studiare e lavorare ancora di più. Lo dico alle mie studentesse, e vale in ogni professione: se siamo brave, diventiamo inattaccabili. Purtroppo, invece, tante si fanno mettere in un angolo. Sa quante ne vedo, attente e preparate, che però pensano di lasciare?».

Cosa fate, allora, per loro?

«Facciamo da mentori, le aiutiamo a orientarsi e a superare gli ostacoli. Rispondo a centinaia di mail, a volte mi scrivono anche le mamme delle studentesse e mi chiedono consigli. Ora voglio creare una road map, un piano d’azione, per monitorare le università e le scuole di specializzazione più attente alla parità di genere. E poi, visto che tutto inizia dall’educazione, andiamo nelle scuole per mostrare ai piccoli il nostro lavoro: le bambine devono sapere che possono farlo. Lo ha detto anche Kamala Harris quando ha saputo di essere diventata la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti: bisogna sognare in grande, i limiti esistono solo nella nostra testa».

Perché ha scelto di fare il medico?

«Il merito è delle donne di casa mia, che mi hanno insegnato a prendermi cura degli altri, anche se non era il loro campo. Anzi, i miei facevano gli orologiai. Quando ero piccola, mamma mi portava dalle signore anziane del paesino in cui vivevamo: a volte c’era una medicazione da fare, altre volte bastava una parola di conforto. In quei momenti ho capito che con i nostri gesti possiamo fare la differenza e io posso, con l’intervento chirurgico giusto, migliorare la vita di una persona. Così mi sono iscritta a Medicina con l’idea di essere il meglio per i miei pazienti. Ho finito gli esami prima e sono volata un semestre negli Stati Uniti, che poi sono diventati una seconda casa. Ho lavorato al Memorial Sloan Kettering Cancer Center, uno dei più importanti centri oncologici, e ho fatto ricerca alla prestigiosa Johns Hopkins University. Staccavo solo per andare a Central Park a correre, perché è la mia grande passione. Lo faccio ancora oggi: una mattina sì e l’altra no, alle 5 e mezza, mentre l’altra suono il pianoforte, con le cuffie ovviamente. Ho avuto a lungo la valigia sempre pronta. Vivere all’estero e farcela con le proprie forze è un’esperienza che consiglio a tutte».

Cosa l’ha riportata a casa?

«I miei affetti e la voglia di dare il meglio anche qui. Sono fatta così: devo alzare sempre l’asticella, cercare una sfida più grande da affrontare e da vincere».

Non c’è nulla che le fa paura?

«Certo, la foto che dovrò fare per questo articolo perché sarò in disordine (ride, ndr). Scherzi a parte, mi spaventa l’idea di appiattirmi e demotivarmi perché magari non avrò mai un posto da primario per le solite discriminazioni. Però non voglio neanche cadere nella trappola che ci costruiamo noi donne da sole: non molliamo mai, sacrifichiamo tutto per il lavoro e per dimostrarci all’altezza, sperando che i nostri cari ci possano perdonare. Ecco, non è necessario uscire dal lavoro alle 9 di sera, si può farlo anche alle 5 del pomeriggio e senza sentirsi in colpa: la qualità non dipende dall’orario».

Le donne che fanno bene all’italia

Giovani, coraggiose e pronte a mettersi in gioco per la società. Sono le 15 finaliste del Premio nazionale Donna dell’anno. Ideata dall’associazione trevigiana Innovation future school (www.innovationfutureschool.com), l’iniziativa è arrivata alla terza edizione e quest’anno ha raccolto centinaia di candidature in tutta Italia. Una giuria di esperti ha selezionato le 15 finalisti e il 12 dicembre premierà la vincitrice in diretta Facebook. In lizza, oltre a Gaya Spolverato, tante professioniste top, come Patrizia Palumbo dell’Associazione Dream Team Donne in Rete che aiuta le lavoratrici di Scampia e la biologa Silvia Bonizzoni, che studia i delfini al largo delle coste italiane.