Ristoranti semivuoti. Negozi che hanno visto crollare il fatturato nel giro di pochi giorni. Richieste di tenere i bambini fuori dalle scuole. Nelle scorse settimane gli effetti del coronavirus non hanno investito solo la Cina, ma anche l’Italia. Il nostro, infatti, è il Paese europeo che conta in assoluto il maggior numero di residenti nativi della Repubblica Popolare (o che ne conservano la cittadinanza pur essendo nati qua). In totale parliamo di 300.000 persone, secondo gli ultimi dati Istat. Ma soprattutto di oltre 70.000 imprese attive: una fetta importante dell’economia nazionale e un pezzo di società che spesso gli stereotipi ci impediscono di decodificare, nonostante la sua storia sia molto meno nuova di quanto potremmo pensare.
I primi immigrati arrivarono negli anni ’20, durante il fascismo
Quella cinese è la più antica comunità straniera d’Italia. I primi arrivano qui negli anni ’20 del secolo scorso, durante il fascismo. Dal Zhejiang, provincia della Cina meridionale, sbarcano in treno a Milano dopo essere stati respinti dalla Francia, perché Parigi non concedeva loro il permesso di soggiorno. Trovano casa in zona Paolo Sarpi, dove qualche decennio prima era stata in visita una delegazione imperiale invitata all’Expo del 1906. I primi immigrati fanno quasi tutti gli ambulanti per le vie del capoluogo. Vendono perle, all’inizio, poi si spingono verso Como e passano alle cravatte di seta.
Ma all’inizio della seconda guerra mondiale, quando Pechino diventa ufficialmente un nemico, tutto cambia e la maggior parte degli immigrati finisce in un campo di concentramento in Calabria, a Ferramonti di Tarsia. A conflitto concluso, con le tasche vuote e i traumi della prigionia, i pochi sopravvissuti tornano a casa, nel Zhejiang, tra le montagne strette e verdi del distretto di Qingtian. Tornano tutti, tranne una cinquantina di famiglie.
La prima ondata migratoria risale all’inizio del ’900. Ma è a partire dagli anni ’80 che reti familiari e boom economico trasformano l’italia nella meta ideale
Il boom migratorio vero e proprio inizia negli anni ’80, quando l’allora presidente Deng Xiaoping apre alcune zone della Cina ai capitali stranieri. Le riforme contribuiscono nell’immediato al successo di una città in particolare: si chiama Wenzhou e si trova proprio nel Zhejiang. Ma il miracolo economico fa aumentare i prezzi dei beni e pone gli abitanti di fronte a un bivio. Emigrare in città, a Wenzhou, per cercare un lavoro ma senza appoggi, oppure volare dall’altra parte del mondo, in Italia, dove molti hanno ancora parenti a cui chiedere aiuto? Molti scelgono la seconda opzione, non solo per ragioni storico-culturali ma anche di calcolo economico: secondo il professor Daniele Brigadoi Cologna, sociologo delle Migrazioni all’università dell’Insubria, «in Italia l’economia sommersa ha da sempre un ruolo rilevante, e questo si sposava bene con le esigenze dei cinesi che emigravano». Insomma, da noi era più facile avviare un’attività in proprio, e il boom economico degli anni ’90 ha fatto il resto.
Le comunità più grandi di cinesi sono in zona Sarpi a Milano e all’Esquilino a Roma
L’antica Chinatown milanese è quasi una metafora perfetta dell’evoluzione economica e sociale compiuta in Italia negli ultimi anni dai figli di Mao: ieri sovraffollata, caotica, vissuta con diffidenza dagli italiani; oggi isola pedonale molto chic dove i ristoranti etnici convivono con enoteche e società di consulenza. Cresce, ma con più fatica, anche la seconda comunità sino-italiana, quella del quartiere romano Esquilino. E poi c’è Prato, dove un abitante su 4 ha il passaporto della Repubblica Popolare. Un record assoluto. Da Firenze a Bologna, da Napoli a Reggio Calabria i cinesi hanno aperto ristoranti, hanno rilevato bar, ma hanno soprattutto rivoluzionato il settore tessile, soppiantando migliaia di piccole imprese a conduzione italiana.
Da Firenze a Napoli i cinesi hanno aperto ristoranti e bar, ma soprattutto hanno rivoluzionato il settore tessile, soppiantando migliaia di piccole imprese italiane
Perché, tra le varie etnie presenti qui, sono proprio loro ad avere maggior successo economico? Merito delle capacità artigianali, di un certo spirito imprenditoriale, della voglia di emergere che accomuna quasi sempre i migranti. Ma anche di un antico principio culturale, il “Mianzi”, ossia il prestarsi soldi senza chiedere garanzie in cambio, sulla fiducia. Per i cinesi, più che per altri popoli del mondo, è fondamentale non “perdere la faccia”, cioè non sfigurare davanti agli altri. Per questo i soldi vengono quasi sempre restituiti, a maggior ragione quando a prestarli è stata una persona proveniente dalla stessa zona, il Qingtian. Tra quelle montagne sono nascosti i segreti di una cultura ancora poco integrata, ma ormai legata al nostro Paese da una storia fatta da generazioni di persone.
Stefano Vergine, autore di questo articolo, è l’autore del podcast Cinesi d’Italia