Quando ho sentito delle recenti sparatorie ad Atlanta, negli Stati Uniti, sono stata attraversata da un brivido pensando a cosa possiamo rischiare noi donne cinesi che viviamo in vari Paesi del mondo. Nell’attacco a 3 centri massaggi, il killer ha ucciso 8 persone: 7 erano donne e 6 di loro erano di origine asiatica, numeri che mostrano la drammatica intersezione tra razzismo e sessismo. Io sono nata in Cina ma abito a Milano fin da quando ero bambina. In questi anni ho a volte subìto pregiudizi e con la pandemia ho assistito a qualche episodio di razzismo. Perciò, anche se la grande maggioranza degli italiani rifiuta l’intolleranza, non posso fare a meno di pensare che crimini come quelli commessi negli Usa non debbano essere ignorati. Vi racconto perché, partendo proprio da quanto successo in America.
In inglese si chiama “Asian Hate” il fenomeno dell’odio contro gli asiatici. Da marzo 2020 a febbraio 2021, si sono registrati negli Usa 3.795 episodi di razzismo contro gli asiatici-americani. Il 68% delle denunce proviene da donne e la ragione sta nello stereotipo con cui è raffigurata la donna asiatico-americana dai tempi dalla guerra di Corea, negli anni ’50: all’epoca intorno alle basi dell’esercito statunitense nei Paesi orientali molte donne del posto venivano sfruttate ai fini della prostituzione. E ancora oggi nei film di Hollywood la donna di origini asiatiche è rappresentata come minuta, mansueta e sottomessa all’uomo. Su questi presupposti si è poi innestata la retorica di Donald Trump, che fin dal primo focolaio in Cina ha chiamato il nuovo coronavirus con appellativi come “China virus” o “Wuhan virus”. Con il diffondersi del Covid, in diversi Paesi si sono accentuati gli episodi di pregiudizio, discriminazione, se non vera e propria violenza a danno dei cinesi e degli asiatici. Anche nelle città italiane si è creato un clima di paura e si sono verificati casi di razzismo, come l’aggressione fisica contro una donna cinese in centro a Torino a febbraio 2020. Questi eventi mi hanno spinto già un anno fa a mettere in guardia sui rischi della sinofobia, fenomeno che risale al 19esimo secolo ma che con la pandemia ha trovato rinnovata forza.
In Italia, come in America, il pregiudizio e l’intolleranza nei confronti delle persone di origine straniera esistevano già. Io stessa, nata in Cina ma residente a Milano praticamente da sempre, sono stata qualche volta oggetto di attacchi in luoghi pubblici: sul tram, alle poste o in un negozio. In quei momenti, di certo non immaginavo di uscire di casa e subire insulti gratuiti da sconosciuti solo per i miei lineamenti. In altri contesti invece, per esempio la scuola, sono stata sempre trattata con molto rispetto, come qualsiasi altro alunno. Nell’ambito lavorativo non ho mai subìto vere e proprie discriminazioni. Il pregiudizio tende a essere più velato. Sono quasi 10 anni che lavoro in università e dal 2018 ricopro il ruolo di docente e ricercatrice di Marketing all’Università Cattolica di Milano. È una professione dove un background internazionale come il mio può rappresentare un punto di forza. Tuttavia, talvolta è successo che il mio nome o le mie origini siano sembrate inusuali. Per esempio, in alcune occasioni i miei interlocutori erano visibilmente sorpresi dal fatto che fossi docente e mi hanno rivolto la parola dandomi del “tu” o assumendo un atteggiamento che probabilmente sarebbe stato diverso di fronte a un docente maschio senza tratti somatici “insoliti”.
A un anno dall’arrivo del Covid, constato che la reazione della maggioranza degli italiani è stata di un sostanziale rifiuto della sinofobia. Allo stesso tempo, penso che ciò che sta succedendo negli Usa sarebbe potuto avvenire anche qui in Europa. Non dobbiamo ignorarlo: i fatti di Atlanta riguardano tutte e tutti noi. E forse proprio il caso dell’Italia può essere emblematico in chiave positiva. All’inizio del 2020 vari cinesi residenti in Italia hanno preso voce nello spazio pubblico, per esempio in tv, per contrastare l’odio, facendo emergere uno spaccato inedito, diverso dallo stereotipo della comunità cinese “chiusa, invisibile, che non muore mai”. Di fronte agli attacchi, sono state significative le dimostrazioni di vicinanza da parte delle istituzioni italiane. Durante l’emergenza, poi, tante persone comuni di origine cinese si sono attivate in azioni di aiuto concreto, come la raccolta di fondi o di materiali di protezione da devolvere alle fasce bisognose.
Nel tentativo di rendere queste storie di solidarietà parte di una memoria collettiva, ho voluto scrivere il libro “Semi di tè”. Certo, in Italia la narrazione delle minoranze è dominata da stereotipi. Solitamente la persona di origine straniera viene identificata con un problema o la si associa a ruoli marginali. Eppure, se guardiamo alla realtà che ci circonda, non è più così. In occasione della Festa della donna, sono stata invitata a un evento di empowerment dedicato alla figura della donna sinoitaliana organizzato dall’ICPN (Italian Chinese Professional Network). Tra le altre ospiti c’erano la chef Stella Shi, l’atleta kick-boxer Sabrina Lin e la ricercatrice di neuroscienze Marika Cai. La donna sinoitaliana sta diversificando i propri settori d’impiego, nonostante alcune difficoltà legate alla società patriarcale di appartenenza. Segnali positivi ci sono, ma nei confronti del razzismo occorre adottare misure urgenti di contrasto. E favorire una maggiore conoscenza delle minoranze per abbattere gli stereotipi e impedire le conseguenze atroci dell’odio razziale.