Me lo ricordo ancora quando i climatizzatori si diffusero, soprattutto quando iniziarono a offrirli di serie sulle macchine.
A chi ce lo aveva toccava dare passaggi a tutti e, a volte, secondo me, la gente fingeva di aver bisogno di un passaggio solo per poter stare un poco al fresco.
Se, per esempio, si andava in gita da qualche parte e ci si poteva andare con una macchina soltanto, perché non si era in più di cinque, si finiva sempre per dire a quello col climatizzatore: «andiamo con la tua macchina che c’è il climatizzatore».
Quello col climatizzatore, i primi tempi, era felice che si usasse la sua macchina: l’aveva comprata con il climatizzatore anche per sentirsi invidiato e dire che la sua macchina era più comoda, era meglio di tutte le altre.
Lo vedevi pavoneggiarsi uscendo dalla macchina con la camicia perfettamente asciutta e tu, invece, oltre a essere sudato come una spugna per aver passato due ore sotto il ferro rovente della tua Seicento del ’98, dovevi continuare a sudare pure per chiudere i finestrini, perché non avevi nemmeno la chiusura elettrica, ma la manovella.
I climatizzatori sono arrivati poi nei centri commerciali, nelle case, negli uffici.
La gente ha preso ad andare nei centri commerciali solo per comprare un pacco di batterie, e poi restarci per ore, seduta sulle panchine in mezzo ai negozi a non fare niente, o al massimo a spostarsi un po’ più in qua o un po’ più in là per ricevere più aria.
I climatizzatori nelle case hanno riunito le famiglie litigate da tempo. Sono stati come i televisori negli anni ’50 e ’60: anche se non ci parlava da tempo, ci si incontrava per vedere tutti insieme Sanremo.
Chi aveva il climatizzatore a casa si ritrovava a ricevere visite dei parenti senza climatizzatore, per tutto il giorno. «Ma come si sta bene a casa tua!». E poi ore a parlare di tutto, di chiunque e qualunque cosa, pur di restare altri cinque minuti sotto l’aria fredda.
In definitiva, il mondo con i climatizzatori sembrava migliore di quello senza climatizzatori. Sembrava che ci volessimo tutti un po’ più bene.
Invece, dopo un periodo di entusiasmo, qualcuno, e poi sempre di più, tantissimi, hanno incominciato a diventare insofferenti all’aria condizionata.
L’insofferenza di questi ultimi, e io un po’ li capisco, perché mi sposto molto, dev’essere partita durante le vacanze di una delle prime meravigliose estati in cui potevamo finalmente godere del climatizzatore anche nei viaggi in treno e in autobus.
Non si sa perché, sui mezzi pubblici, non si riesce ancora a regolare la temperatura del climatizzatore su una gradazione accettabile: o lo tengono spento oppure lo tengono al massimo. Più spesso, lo tengono al massimo.
Perciò, quando ci entri, trovi le stalattiti e numerose colonie di pinguini in festa (con lo scioglimento delle calotte polari hanno trovato un habitat migliore sui Frecciarossa che al polo Nord).
Ho visto più gente con i maglioncini sui Frecciarossa d’estate che il 25 dicembre a Berlino. Ho visto gente ordinare cioccolata calda alla carrozza ristorante battendo i denti, a Messina il 15 agosto.
Le stazioni hanno iniziato ad assomigliare a quelle dei vecchi film di guerra: eserciti di persone zoppicanti, paralizzate dai colpi d’aria gelida.
A settembre, subito dopo quelle prime estati sui treni climatizzati, la gente aveva sviluppato delle fobie post-traumatiche verso l’aria condizionata.
Quando riapriono gli uffici, era ormai troppo tardi: anche se non era più tanto estate, faceva ancora caldo, e qualcuno voleva l’aria condizionata. Scoppiò uno scontro di civiltà per il climatizzatore, che non è mai più finito.
Il mondo si divise tra quelli che vogliono il climatizzatore, e non saprebbero vivere senza, e quelli che, sopravvissuti ai Frecciarossa, non lo vogliono, perché sono traumatizzati.
Quelli che non lo vogliono hanno iniziato a chiedere a quelli che lo vogliono di spegnerlo ogni tanto. Quelli lo vogliono hanno detto «va bene», poi dopo un quarto d’ora hanno detto «però fa caldo» e sono andati a riaccenderlo, «al minimo, giuro». Invece non era al minimo: era a 17 gradi.
Così, quelli che non lo vogliono hanno preso a nascondere il telecomando o a levargli le batterie. Ho sentito di gente che ha nascosto il telecomando sopra la vaschetta del water pur di non farlo trovare ai colleghi.
Dai dispettucci si è passati presto a guerre a suon di certificati medici, sentenze della cassazione, ricorsi al Tar del Lazio (che poi, non si sa perché, a un certo punto ha sempre più ragione di tutti il Tar del Lazio).
Colleghi da vent’anni, hanno smesso di parlarsi per colpa del climatizzatore.
Io, onestamente, non lo so che cosa preferisco: se il caldo torrido oppure il fresco che però ci fa diventare cattivi e macchinosi.
Forse, preferisco il calore, anche se si soffre un po’ di più, però la sofferenza crea solidarietà e allora quando fa caldo possiamo tutti lamentarci e dire «fa caldo». Anche se quando poi fa caldo davvero e passo davanti a certi negozi che hanno la porta aperta per far arrivare l’aria fredda a quelli che passano proprio come me, e invogliarli a entrare, ecco io ci entro subito. Anche se il negozio è Intimissimi. Al massimo resto qualche minuto a guardare la pubblicità di Irina Shyak che è una pubblicità bellissima.
Ma forse non è importante quello che ciascuno di noi preferisce, ma quello che tutti un po’ preferiamo. La nostra capacità di mediare fra l’egoismo, i nostri bisogni e le esigenze degli altri.
Le comunità, invece, si sono sviluppate nel tempo, e continuano a svilupparsi, attorno ai problemi: lo testimoniano quelle comunità che hanno subìto o subiscono ingiustizie, quelle che hanno conosciuto qualche disgrazia o che non conoscono ricchezza.
Insomma, laddove ci sono pochi problemi regna l’egoismo. Che il benessere ci faccia diventare insofferenti è un passaggio che sembra inevitabile, per come siamo fatti.
C’è però secondo me un modo per prenderci il meglio del benessere, poter cioé entrare nel negozio di Intimissimi, stare freschi e godersi Irina Shyak, senza per forza diventare egoisti: ricordarci ogni tanto di com’era quando il climatizzatore non c’era, quando i finestrini si chiudevano con la manovella e quando gli sms costavano dieci centesimi e non c’era Whatsapp ed eravamo costretti a scegliere con cura le parole da non dire.
La tecnologia ci ha semplificato la vita, e rifiutarla sarebbe stupido, ma il grande tema dei prossimi anni sarà uno e uno solo: sviluppare un rapporto conspevole con i mezzi che usiamo, dominarli e non esserne dominati.