Nel cuore dell’Italia è custodito un segreto antico e rivoluzionario. Per scoprirlo bisogna inerpicarsi lungo le pendici della Valle del Salto, in provincia di Rieti. Lì, dove un tempo furono distrutti paesi e in tanti persero la vita per costruire 90 metri di diga, oggi si coltiva il cibo del futuro. Pomodori, insalata, basilico, ortaggi crescono senza l’uso di pesticidi, hanno più vitamine e sono garantiti tutto l’anno. Sono i frutti del lungo lavoro di Giorgia Pontetti, 40enne ingegnere spaziale ed elettronico che ha unito le sue competenze scientifiche all’amore per la terra ereditato dal nonno contadino perché, racconta, «il futuro è questo: portare le tecnologie dove nessuno aveva mai pensato di farlo».
Cos’è la coltivazione idroponica
Mentre studiava all’università, Giorgia sognava di diventare astronauta. L’illuminazione che ha cambiato la sua vita è arrivata proprio durante una conferenza sullo spazio: «A un professore americano sentii dire che il giorno in cui l’uomo sarebbe andato su Marte avrebbe potuto anche coltivare in idroponica» ricorda. «Ho iniziato a documentarmi, scoprendo che questa è la tecnica di coltivazione più vecchia del mondo: la utilizzavano nell’antichità i babilonesi e gli egizi». Loro lo chiamavano “il lavoro dell’acqua”, ed è uno dei fattori che consentirono a queste civiltà di proliferare. I primi esperimenti di coltura idroponica risalgono al secondo millennio avanti Cristo. A idearla furono i babilonesi, che nel momento di massima espansione della loro civiltà non disponevano più di una produzione agricola sufficiente a rifornire popolazione e soldati. Nacque così l’idea di ricreare, nei terreni sabbiosi sulle sponde dei fiumi, le stesse condizioni chimiche della terra fertile: questa veniva sostituita da un mix di argilla, soluzioni chimiche, sali minerali, fibre e poi idratata con residui vegetali e acqua. E gli ortaggi crebbero anche lì.
La versione tecnologica dell’idroponica
Oggi la coltivazione idroponica è anche “il lavoro di Giorgia”, che ha trasformato quell’intuizione in un laboratorio unico in Europa, con i giardini pensili e galleggianti di un tempo trasformati in serre asettiche e automatizzate. Sono ambienti dall’equilibrio biologico e climatico delicatissimo: per entrare occorre indossare cuffie, tute e calzari, proprio come si farebbe in una sala operatoria. All’interno la temperatura è costante, un sistema di lampade con tecnologia LED modella il ritmo della luce e i computer regolano l’intensità fino a riprodurre le condizioni ideali per lo sviluppo. Camminando tra i filari di pomodori si è avvolti da un intenso profumo, l’ambiente sterile consente alle piante di crescere rigogliose senza doversi difendere da parassiti e malattie.
Una coltivazione che risparmia fino al 90% di acqua
L’ingegnera-contadina mostra una spugna in cui le sue piante affondano le radici: sostituisce la terra naturale e contiene fibra di cocco e sali minerali. Un metodo che permette l’incremento della resa e il controllo della crescita. Qui in 100 metri quadrati vengono raccolti ogni settimana 200 chili di pomodori, perfetti nella forma, nel colore, nel gusto e privi di elementi che provengono da terre inquinate, come il nichel. L’idroponica consente poi di risparmiare sull’utilizzo dell’acqua, con un abbattimento del consumo idrico fino al 90% rispetto all’agricoltura tradizionale, e di evitare emissioni di Co2.
Si può fare in ogni angolo del pianeta
«Eliminando i trattamenti chimici e rendendosi indipendenti dalle condizioni climatiche e di contaminazione ambientale, che oggi si presentano impossibili e domani si prospettano catastrofiche, possiamo coltivare ai Poli, all’Equatore, sottoterra, nei palazzi, sulle navi, in scenari di crisi, e, perché no, anche nelle missioni spaziali future» illustra Giorgia con entusiasmo. La coltura idroponica non ha infatti bisogno di migliaia di ettari per poter funzionare e per questo è la soluzione ideale in un Pianeta sempre più urbanizzato, danneggiato dall’uomo e ormai povero di risorse. Se applicata su larga scala, potrebbe sfamare chiunque nel mondo e salvare l’ambiente.
La riscoperta delle colture del passato
Da queste serre escono conserve, nettari di frutta, sughi, salse, omogeneizzati. Una linea automatica trasforma e lavora sottovuoto i prodotti subito dopo la raccolta, mantenendo inalterate le caratteristiche nutrizionali e qualitative della materia prima. «L’abbiamo progettata secondo gli standard degli impianti di dimensioni industriali, mantenendo però il carattere artigianale della produzione» sottolinea l’imprenditrice, che in questo modo è riuscita a ricreare i profumi e i sapori della sua memoria di bambina, quelli andati perduti «perché abbiamo alterato un ecosistema». In questo podere l’innovazione è al servizio della tradizione. Accanto ai nuovi pomodori scherzosamente ribattezzati “San Marziano”, una distesa di 3.500 piante di differenti varietà, un giardino di spezie certificato bio, un agriturismo a 5 girasoli (l’equivalente delle 5 stelle per l’hotellerie) e una fattoria didattica per imparare a conoscere il cibo di domani. Realizzare Ferrari Farm, così si chiama l’azienda, non è stato semplice. «Il nome è un omaggio a mia mamma, che di cognome fa Ferrari, e con un po’ di presunzione anche al Made in Italy di qualità, perché nel nostro Paese ci sono tanti ostacoli ma menti che sfrecciano veloci» continua Giorgia. Che ha affrontato 7 anni di iter burocratico e un’infinità di autorizzazioni, a cui si sono aggiunte le perplessità di molti esperti che giudicavano l’idea folle. «Ci vogliono determinazione, volontà e consapevolezza, ma nel mondo dell’impresa la donna è più lungimirante e abituata a pensare alla risoluzione dei problemi».
L’idroponica anche a casa
Non arrendersi di fronte agli ostacoli e credere in ciò che fa ha consentito a Giorgia di superare anche le difficoltà dovute alla pandemia. Come? Continuando a sperimentare. Sogna di far entrare nelle case degli italiani un orto tecnologico e ha già realizzato il prototipo: RobotFarm è grande quanto una lavatrice e permette a chiunque di coltivare in casa spezie e ortaggi di alta qualità. Basta inserire qualche goccia di sali minerali e programmare il giorno della raccolta. Il consumo è paragonabile a una lampadina di vecchia generazione, circa 150 watt, e il costo è quello di un elettrodomestico di alta gamma. Già 10 anni fa Dickson Despommier, professore alla Columbia University, nel suo saggio The Vertical Farm spiegava che l’ambiente in cui viviamo è il più tossico di sempre e quindi i prodotti che consideriamo naturali non sono poi così benefici. La soluzione è sviluppare serre verticali, sterilizzate e indoor. Giorgia Pontetti ne ha progettate 2: la prima in un container navale, grazie a un finanziamento della Difesa, la seconda per far crescere zafferano di altissima purezza. «In parte sarà utilizzato dall’industria farmaceutica, ma è anche un nuovo modo per rilanciare la coltivazione nell’altopiano di Navelli in Abruzzo» spiega «È una delle migliori qualità, ma i giovani non lo lavorano più. Grazie all’idroponica riusciremo a non perderne le proprietà». Tutelare noi e il Pianeta riscoprendo un mestiere antico in modo nuovo, ritornare alla terra per guardare al futuro.