Spesso hanno iniziato a combattere adolescenti e sono diventate maggiorenni sul fronte. Lo fanno con il consenso della loro famiglia oppure contro il loro volere. Sono le combattenti curde, di tutte le età, che in questi giorni sono ritornate sotto i riflettori internazionali con l’aggravarsi del conflitto in Siria. Dopo il recente ritiro delle truppe americane nelle zone di confine tra Turchia e Siria, infatti, il presidente turco Erdoğan ha lanciato la sua offensiva, denominata “Operazione fonte della pace”, contro il Rojava, la zona a nord-est della Siria occupata dalle forze curdo-siriane.
Dal 2014, proprio l’YPG curdo (Unità di protezione popolare) e i suoi alleati hanno svolto un ruolo di primo piano nel respingimento degli estremisti islamici del Daesh, dapprima in autonomia quindi con il supporto della comunità internazionale e degli Stati Uniti in particolare. Oggi che quel supporto non c’è più, i militanti curdi si ritrovano da soli a fronteggiare l’avanzata turca. Molti analisti, inoltre, sono concordi nel segnalare il rischio che si riformino cellule terroristiche: in questi anni, infatti, i curdi hanno sorvegliato e amministrato i campi profughi e le carceri dove sono ancora presenti migliaia di militanti dell’Isis e i loro familiari.
Che cos’è il Rojava
Costituitasi nel 2012, a seguito degli eventi legati alla guerra civile siriana, l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est (conosciuta come Rojava) è considerata dalle forze curde una delle quattro parti del Kurdistan. Non è mai stata riconosciuta ufficialmente né dal governo siriano né da quello turco, ma è un esperimento di governo dal basso che ha attirato su di sé l’attenzione del mondo.
La “Rojava Revolution”, infatti, ha richiamato in Siria anche migliaia di combattenti occidentali, i cosiddetti “foreign fighters”, che hanno sposato la causa curda, come ha raccontato in un lungo approfondimento del 2018 il New York Times. Ad attirarli sono stati gli ideali di uguaglianza, libertà di culto, femminismo e sostenibilità ambientale che sin dall’inizio hanno costituito l’esperienza governativa di questo territorio difficile.
Che cos’è l’Ypj
Al fianco dell’Ypg c’è l’Ypj, l’Unità per la protezione delle donne, guidata da Dalbr Jomma Issa, che lo scorso 10 ottobre, assieme a una delegazione del Rojava, ha tenuto una conferenza a Roma presso l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Come racconta il manifesto, Jomma Issa ha chiesto il sostegno della comunità internazionale in maniera lucida e schietta: «Da subito nei tre cantoni in cui si divide il Rojava – Afrin, Kobane, Jazira – abbiamo promosso una politica di convivenza tra curdi, arabi, turcomanni, cristiani, armeni. L’attacco è proprio contro il sistema democratico. Chiediamo alla Comunità europea, al Consiglio europeo, alla Nato: siete con noi o con l’Isis?».
Insieme a lei, in questi anni abbiamo conosciuto molte altre combattenti in prima linea per difendere la libertà del loro popolo. In tante hanno perso la vita, com’è successo a Asia Ramazan Antar, uccisa a 22 anni nell’agosto del 2016, ma hanno anche compiuto imprese eccezionali, come quella dell’ufficiale delle Syrian Democratic Forces (Sdf) Jihan Cheikh Ahmad, che per prima ha annunciato la battaglia per la riconquista di Raqqa nel novembre del 2016.
Come spiega Lettera Donna, «Nell’area di Baghuz, che è stata l’ultima roccaforte dell’Isis in Siria, è stato emanato un decreto che equipara uomini e donne, “uguali in tutte le sfere della vita pubblica e privata”, abolendo al contempo delitti d’onore e nozze forzate. Sempre nel Rojava sorge il villaggio di Jinwar, dove è nata una comunità autogestita di sole donne yazide, mentre a Qamishli, capitale non ufficiale del territorio, c’è un’università aperta a uomini e donne».
Nel gennaio del 2019, la Cnn ha pubblicato un reportage sulle combattenti curde realizzato dalla fotografa curdo-tedesca Sonja Hamad. Le sue bellissime foto sono accompagnate dalle storie di donne e ragazze che hanno scelto di combattere contro i terroristi ma anche per il riconoscimento dei loro diritti in una società ostile. Per molte di loro, la militanza è stato il primo assaggio di libertà e spesso si sono trovate a vivere situazioni traumatiche che poi non hanno avuto il tempo di metabolizzare. Oggi, però, sono tornate a combattere.