Quello che sappiamo con certezza
Si sa che due studentesse americane, arrivate nel capoluogo toscano all’inizio dello scorso agosto, hanno denunciato due carabinieri, accusandoli di averle violentate nella notte tra mercoledì 6 e giovedì 7 settembre dopo essersi offerti di riportarle a casa al rientro da una festa.
Si sa che la pattuglia dei carabinieri, uno con più di vent’anni di servizio alle spalle e l’altro più giovane, era una delle tre intervenute a sedare una rissa scoppiata presso la discoteca Flò, in piazzale Michelangelo, dove le due giovani (di 19 e 21 anni) avevano trascorso la serata.
Si sa che le due giovani hanno subito detto di aver bevuto e di non essere state perciò in grado di opporsi alla violenza subita (e, nell’immediato, nemmeno di comprenderla): i due uomini, hanno dichiarato, le avrebbero aggredite non appena raggiunto l’androne del palazzo del loro appartamento in affitto, in Borgo Santi Apostoli.
Si sa che non ci sono telecamere di sicurezza all’interno di quell’androne, ma secondo quanto segnala La Repubblica, ce ne sono alcune fuori: due telecamere avrebbero infatti ripreso l’auto dei carabinieri arrivare nella zona e andarsene all’incirca una mezz’ora dopo.
Si sa che i reperti biologici raccolti dalla polizia hanno confermato un rapporto sessuale.
Si sa, secondo quanto riportano oggi tutti i quotidiani, che il carabiniere più anziano, che per ora è stato sospeso dal servizio assieme al collega, avrebbe ammesso l’intercorrere di un rapporto con una delle studentesse, che però ha definito «sesso consensuale», dichiarando di «non essersi accorto che la ragazza era ubriaca», come si legge sempre su La Repubblica e sull’Huffington Post fra gli altri.
Si sa che, di fronte a quest’ammissione, il generale Tullio del Sette, comandante generale dell’Arma, ha così commentato l’accaduto: «È un grande dolore vedere come basti il comportamento indegno, illegittimo e immorale di un qualche carabiniere, per oscurare il lavoro che compiono giorno e notte centomila uomini. È imperdonabile, anzitutto per noi, il grave danno che stanno facendo all’Arma. Questi fatti ci feriscono nel prestigio, gravemente». E fin qui, le certezze.
Quello che ci viene raccontato
Questa storia arriva pochi giorni lo stupro di Rimini, che ha scosso il Paese fino a diventare un caso politico. Ci sono, dunque, alcuni punti su cui riflettere a partire da come è stata raccontata sui giornali e sui social.
Si pensi al caso montato sulla presunta assicurazione anti-stupro di cui le due ragazze sarebbero state in possesso: in tanti (troppi) hanno insinuato una qualche correlazione fra la denuncia e questo particolare, smentito poi dalle precisazioni dell’avvocato di una delle due, Gabriele Zanobini, come riporta Next Quotidiano. «Le ragazze non hanno nessuna assicurazione anti-stupro, ma soltanto una generica assicurazione che di prassi le università americane stipulano per i loro studenti che di recano all’estero», ha spiegato. È singolare che questo dettaglio, evidentemente diffuso con superficialità e senza accuratezza giornalistica, abbia avuto così presa sull’opinione pubblica.
Arianna Ciccone su Valigia Blu segnala un altro falso dato che è circolato molto ed è stato ripreso da alcuni media, anche importanti, come La Stampa e Il Messaggero: «Secondo questi giornali “risulta” (così senza una fonte, senza uno straccio di pezza d’appoggio) che ogni anno – vi prego di fare molta attenzione ai numeri – a Firenze ci sono circa 150 / 200 denunce da parte di ragazze americane. Il 90% risultano inventate. Cioè solo a Firenze ogni anno ci sono ogni due giorni denunce di stupro da parte di sole – ma tu pensa – ragazze americane che poi risultano – ma guarda un po’- per il 90% inventate», ha scritto Ciccone su Facebook. Il questore di Firenze ha dovuto poi smentire le improbabili statistiche, definendole nient’altro che «una bufala al cubo».
[Aggiornamento del 13 settembre: Il 12 settembre La Stampa ha ritirato la parte dell’articolo che riportava le statistiche infondate sulle denunce per stupro a Firenze, come segnalato sempre da Valigia Blu su Facebook: «Il direttore ha spiegato che dopo le critiche ricevute è stato attivato un processo di verifica e il dato fornito da una fonte attendibile non ha ottenuto alcun riscontro». Il Messaggero ha invece rimosso l’articolo senza spiegazioni]
Allo stesso tempo, non si può non registrare l’infelice uscita del sindaco di Firenze Dario Nardella che, nel commentare il fatto, sceglie di ricordare agli studenti stranieri che studiano a Firenze «che questa non è la città dello sballo». Come segnala Il Post, Nardella ha poi ritrattato, ma ciò non toglie che la sua rimane un’affermazione dal tempismo tutto sbagliato che avrebbe potuto avere un senso in una situazione normale (ovvero se si stesse discutendo di ordine pubblico in sede di consiglio comunale), ma che come prima reazione a un presunto stupro, che per di più coinvolgerebbe due uomini in divisa, fa quantomeno riflettere.
Ci sono stupratori e vittime, ma non sono tutti uguali
La discussione pubblica attorno allo stupro, e nel particolare questo stupro, ha assunto in Italia toni foschi e quasi grotteschi, che tendono sempre verso la condanna delle donne (potenziali vittime) e l’assoluzione degli eventuali responsabili.
Ha fatto eccezione il brutale stupro di Rimini, certo, ma in quel caso c’erano molti altri fattori da considerare: gli aggressori erano di origini straniere, tanto per cominciare, e grazie alle dolorose testimonianze della ragazza polacca e della transessuale peruviana, la situazione si è delineata in maniera decisamente diversa. Di fronte alla certezza del reato, per giorni gli italiani hanno seguito la “caccia” al branco.
La rabbia e la solidarietà dimostrati nei confronti delle vittime di Rimini è stata commisurata all’odio “social” verso i colpevoli, e notevolmente alimentata, bisogna ammetterlo, dai pregiudizi razziali. Annalena Benini su Il Foglio ha poi giustamente parlato di «uso pornografico dei verbali della Polizia» riferendosi all’ignobile scelta di certi giornali di pubblicare i dettagli della violenza, senza alcun riguardo nei confronti del trauma subito dalle vittime, né tutela del loro diritto alla privacy.
Questa si chiama cultura dello stupro
Di fronte a due italiani, e per di più in divisa, i giornali si sono scoperti invece garantisti, e molto meno propensi a concedere il beneficio del dubbio a chi denunciava. Lo spiega bene Giulia Siviero sempre sul Post, quando rende conto della narrazione dei fatti di Firenze: si è deciso di mettere l’accento sul fatto che le ragazze avessero bevuto e fumato, ingrossando il sempreverde cliché del «se la sono cercata», mentre per parlare dei due uomini si sono scelte parole come “esperti” o “bravi ragazzi”.
Per fare qualche esempio: la versione delle presunte vittime è definita “oscura” e “strampalata” dal Corriere.it e sembra voler suggerire nei lettori una implicita condanna dei comportamenti poco adeguati tenuti dalle due americane, mentre Il Secolo XIX riporta il dettaglio non verificato dell’assicurazione anti stupro.
Al di là degli esiti delle indagini, allora, è importante riconoscere e combattere questo tipo di racconto falsato: perché non è oggettivo e non si sforza nemmeno di esserlo, innanzitutto, e perché fortifica stereotipi semplicistici che non rispecchiano la realtà (come quello della studentessa straniera di facili costumi), contribuendo a consolidare una cultura maschilista e patriarcale, che finisce per addossare la colpa sulle vittime senza che prima la verità sia stata accertata.
Si chiama cultura dello stupro e in un Paese come il nostro, dove abbiamo dovuto inventarci una parola come femminicidio e dove il delitto passionale è tutt’altro che sporadico, è fondamentale raccontare lo stupro con oggettività, senza pregiudizi legati al genere o di sorta, e soprattutto soffermarsi su quella che sembra ancora una grande incognita nei rapporti fra uomini e donne, anche nel 2017: il consenso. Quando un rapporto è consensuale? Se una donna non è in grado di comprendere a pieno, per qualsiasi motivo, la situazione in cui si trova, un uomo non dovrebbe fermarsi invece di approfittarne? Perché il volersi divertire dev’essere automaticamente associato con la disponibilità sessuale? Come insegnare ai ragazzi quali sono i limiti da non superare? Queste sarebbero state le domande da farsi sul caso di Firenze, indipendentemente da come andrà a finire.