I numeri parlano da soli: 130 femminicidi tra il 2017 e il 2018 e 3.118.000 italiane molestate negli ultimi 3 anni (dati Viminale e Istat).
Cambierebbero le cose se il rispetto per il genere femminile iniziasse a essere promosso tra i bambini e diventasse parte dell’educazione dei maschi? «Sarebbe il modo migliore per prevenire aggressioni, stalking e omicidi» dice la filosofa Michela Marzano. «Estirpare il seme della prevaricazione è possibile solo se si smontano quegli stereotipi che spingono i piccoli maschi a pensarsi diversi, a sentirsi migliori».
Se l’è chiesto anche il New York Times in un articolo diventato virale: come possiamo crescere figli femministi? Abbiamo girato la domanda a tre esperti italiani.
«Lasciamoli liberi di progettare giochi e sogni di colore “rosa”»
IRENE BIEMMI Docente di Pedagogia sociale, studiosa di questioni di genere in ambito educativo all’università di Firenze, autrice del libro “Si parte papà” (Cosimo Panini editore)
«Bambine e bambini realizzano di appartenere a un genere intorno ai 3-4 anni. In questa fase si forma nella loro mente il doppio binario azzurro-rosa che con gli anni, complici anche i testi scolastici infarciti di preconcetti, si divarica sempre più: o sei il primo, e cioè forte, coraggioso, a volte aggressivo, o sei l’altra, dunque paziente, dolce e meditativa. E qui si fa un errore di valutazione: si pensa che questo cliché sia penalizzante solo per le femmine, quando in realtà è una gabbia ancora più limitante e stressante per i bambini. Pensiamo ai giochi tipicamente associati ai maschi, concessi volentieri dai genitori alle femmine: accade raramente il contrario. L’universo rosa è ancora un tabù per i nostri figli, costretti così non solo a soffocare la loro sfera emotiva ma anche a escludere dal loro orizzonte e dalla loro progettazione ciò che è considerato “da femmine”: niente bambole, corsi di danza o sogni di diventare maestro. Occorre far passare il messaggio che non esistono comportamenti giusti o sbagliati a seconda del genere: ognuno deve essere libero di sperimentare ciò che lo attrae. Questa emancipazione, però, non “arriva” attraverso le parole. Bisogna allargare l’immaginario infantile con modelli diversi, per esempio il padre che si prende cura dei figli o parla d’amore. Solo quando la vita reale e la letteratura per l’infanzia proporranno figure come queste, i piccoli si sentiranno liberi di identificarsi in loro».
«Cambiamo lo sguardo materno troppo indulgente con i maschi»
MICHELA MARZANO Docente di Filosofia morale all’università di Parigi, autrice di “Papà, mamma e gender” (Utet)
«Per contrastare gli atteggiamenti da “macho” nei maschi sono le madri a doversi rimettere in discussione. Il loro sguardo sui figli deve essere improntato alla parità, perché anche attraverso di esso i bambini – di entrambi i sessi – diventano consapevoli del loro valore. A volte le donne hanno verso i figli maschi un atteggiamento più indulgente già nelle piccole mansioni quotidiane, che spesso vengono portate a termine in modo approssimativo dai figli: al bambino viene concesso perché in fondo si sa, i maschi sono frettolosi e imprecisi, mentre la sorella subisce un rimprovero perché da lei ci si aspetta il massimo. L’effetto di questa diversità di trattamento? Mentre lei dubiterà di se stessa, l’altro si convincerà di essere immune alle critiche. Abituato a non sentirsi mai in discussione, come reagirà il ragazzo alla prima delusione d’amore, quando una donna per la prima volta lo respingerà? Non trovando risposta, il rischio è che la delusione sfoci nell’aggressività: non può essere lui quello sbagliato, dunque è di sicuro lei. Anche per questo bisogna insegnare il rispetto per un “no”. Accettare un rifiuto significa saper convivere con la frustrazione del rigetto».
«Concediamo ai nostri bambini anche lacrime e paura, non solo rabbia»
TONY PORTER Attivista americano, fondatore del movimento “A Call to Men” contro la violenza di genere
«Sono cresciuto a New York, tra Harlem e il Bronx. Quando ero piccolo mi hanno sempre ripetuto che i maschi devono essere determinati, forti, coraggiosi: mai mostrare emozioni, a meno che non sia la rabbia. Una volta diventato padre ho cresciuto mio figlio nello stesso modo: a lui non era concesso piangere, a sua sorella sì. Fino a che, anni fa, mio fratello adolescente è morto e mio papà, impassibile per tutto il funerale, è scoppiato in lacrime solo quando si è ritrovato in disparte. In quel momento ho capito che questo ideale di mascolinità è una gabbia che ci intossica. Se la rabbia è l’unico sentimento che concediamo ai figli, sarà il solo che si porteranno nelle relazioni adulte: anche la gelosia, la vergogna, l’ansia o la tristezza diventeranno violente. Insistere su un modello maschile antitetico rispetto a quello femminile alimenta la distanza: i maschi, convinti del loro essere duri, alle elementari cominciano a pensare che le femmine, con le loro caratteristiche opposte come empatia e pazienza, valgano poco. Non è un caso che non ci sia offesa peggiore del “sei una femminuccia!”. In questa fase perdono interesse nelle bambine: le evitano per tornare a cercarle intorno ai 13-14 anni, in piena tempesta ormonale, quando a quel punto le considerano più dal punto di vista sessuale che emotivo».
«Aiutamoli a chiedersi più spesso: “Come ti sentiresti nei panni di lei?”»
MARIA AMANTEA Insegnante di scuola primaria, ideatrice del progetto di educazione e prevenzione della violenza di genere Io Valgo negli istituti di Milano
«Brillanti, indipendenti e sicure di se stesse: mentre le bambine di oggi “emergono”, i maschietti tentennano e sono più esposti al senso di inadeguatezza. Il confronto aggrava la distanza tra i generi: non è raro che i bambini vadano al contrattacco con parole o gesti che sfiorano l’aggressività. Il primo passo per prevenire la violenza, dunque, è educare i piccoli alla risonanza emotiva: devono imparare a controllare le loro reazioni, anche quelle negative, e a capire le conseguenze che le loro azioni scatenano negli altri. Se escludono una bambina da un gioco perché lo considerano un’attività da maschi o perché, sotto sotto, temono di sfigurare, devono sapere che lei ci soffre. Nelle nostre lezioni proponiamo giochi di ruolo: attraverso una situazione inventata o recitata spingiamo un alunno a mettersi nei panni della compagna esclusa, per poi domandargli: “Come ti senti?”. È un lavoro che va fatto ogni giorno, anche a casa, dove i ruoli devono essere intercambiabili: insegniamo ai figli che non ci sono aree d’azione riservate a un sesso. È così che si smontano i pregiudizi».