Come (e dove) sono nate le emoji
Il 17 luglio è la Giornata mondiale delle emoji, ma nel 2018 c’è stato un altro compleanno importante: abbiamo festeggiato il decimo anniversario degli emoticon, la cui diffusione inizia nel 2008 in Europa e negli Stati Uniti, quando un aggiornamento per l’iPhone le rende disponibili su tantissimi telefoni nel mondo. È la versione disegnata da Apple a renderle iconiche al punto che emoji come la ballerina o la melanzana finiscono per entrare nel nostro linguaggio. In realtà, la loro storia inizia nel lontano 1999 su una piattaforma internet giapponese.
Disegnate con linee semplici e pochi pixel, monocromatiche, le emoji originali avevano in comune con le emoticon – ovvero le faccine disegnate con simboli di punteggiatura molto usate negli anni Novanta nel mondo occidentale – solo la funzione, mentre l’assonanza del nome è completamente casuale. La diffusione delle emoji negli Stati Uniti e in Europa è una pura coincidenza: quando Apple commissiona ai propri designer di realizzare delle versioni più grafiche delle faccine giapponesi, l’obiettivo era quello di supportare uno standard già diffusissimo. Le faccine sarebbero state disponibili “ufficialmente” negli altri mercati solo tre anni dopo.
L’adozione di massa delle emoji è uno dei cambiamenti più interessanti che la popolarizzazione degli smartphone ha avuto sul mondo negli ultimi dieci anni.
Da Internet a WhatsApp
È impossibile stabilire oggi se le emoji giapponesi avrebbero avviato la stessa rivoluzione linguistica che invece hanno lanciato quelle disegnate da Apple, ma è certo che sono state proprio le icone inizialmente rese disponibili solo su iPhone e poi, poco alla volta, sulle varie app Android, a renderle una parte irrinunciabile del discorso scritto contemporaneo digitale.
Il secondo motivo che ha portato alla diffusione dirompente delle emoji, soprattutto in Europa, è stata la decisione di WhatsApp di utilizzare – per anni senza licenza – le immagini prodotte dai designer Apple. L’anno scorso l’app di messaggistica ha prodotto un proprio set di emoji, ma ciò non toglie che l’arrivo delle emoji Apple su WhatsApp ha contribuito enormemente alla loro popolarità.
Oggi anche i set disegnati da altri grafici, come le twemoji di Twitter o le nuove emoji di Android disegnate da Google, affondano le proprie radici in quel primo set. Tentativi di reinterpretazione di quei primi simboli, come le blob emoji di Google, non hanno avuto particolare successo. Nell’immaginario collettivo, il look delle emoji rimane quello definito da Apple nel 2008, e non può cambiare, perché nelle loro forme sono stati proiettati nuovi sottotesti mai previsti dai creatori originali e dagli artisti dell’azienda di Cupertino, ma che sono ora inseparabili da esse.
Ridisegnare il linguaggio
«Anche se ho iniziato a riempire di emoji i miei messaggi non appena sono state disponibili, non ho capito il segno che avrebbero lasciato sul mondo per più di un anno. Ero dal mio cartolaio quando ho visto un pacchetto di sticker di emoji: erano proprio le icone che avevo disegnato io. Vedendole così, non in digitale ma in un oggetto fisico, ho capito immediatamente l’importanza del lavoro che avevamo fatto» racconta Angela Guzman, una dei due designer responsabili del primo set di emoji.
Le emoji non erano tra le funzionalità a cui Apple aveva dato più rilevanza per l’aggiornamento di sistema dell’iPhone rilasciato durante l’estate del 2008, tanto che all’inizio erano disponibili solo su tastiera giapponese. Il progetto era stato affidato a due autori: la stessa Guzman, all’epoca stagista e ora lead-designer di Google, e l’illustratore Raymond Sepulveda.
Guzman e Sepulveda hanno tantissime storie di quei mesi: dagli aneddoti estremamente buffi (lo sapevi che il ricciolo dell’emoticon della cacca è lo stesso del cono gelato?) allo stress di dover dare consistenza a un set vastissimo di immagini su display a bassa risoluzione. «In quanto designer, uno dei miei obiettivi durante la creazione di un prodotto è la sua comprensione universale: che riesca ad avere un senso e uno scopo per il maggior numero di persone al mondo. Le icone, in qualche modo, sono l’esempio più fondamentale di questa necessità. E a pensarci bene credo che le emoji siano il primo caso di un successo completo, sono diventate davvero un linguaggio internazionale. Vederle crescere in questi dieci anni è stato divertentissimo».
Le emoji tra cultura pop e uso comune
Pensare alle emoji come un vero e proprio linguaggio è un esercizio interessante. Le icone disegnate da Guzman e Sepulveda, limitate artificialmente e rimaste per anni senza una forza che le guidasse, sono state in qualche modo “plasmate” da pulsioni opposte. Da una parte le necessità commerciali dei giganti della Silicon Valley e dall’altra l’uso pratico che negli anni ne hanno fatto gli utenti, che le hanno caricate di nuovi significati, in parte per superare i limiti di un linguaggio artificialmente chiuso.
È così che emoji come quelle della melanzana e della pesca sono diventate espressioni esplicite, in parte perché non esistevano icone più dirette, in parte perché il doppio senso le ha rese più forti di qualsiasi altra alternativa puramente grafica.
Flirtare su internet, tra pesche e melanzane
L’uso di emoji come la melanzana, la pesca e le gocce in senso sessualmente esplicito è diventato il loro significato principale. Quando la scorsa estate Apple ha aggiornato il look di molte icone ha inserito in una versione test del proprio sistema una emoji di pesca che… assomigliava più a una pesca che a un sedere, e la risposta del pubblico di tester è stata così forte da convincere l’azienda a ridisegnare l’icona, in modo da conservare il doppio senso.
«Nessuno sa esattamente chi abbia iniziato a usare la melanzana in quel modo» mi dice Guzman «Io conosco tutti i dietro le quinte delle loro scelte grafiche, ma non ho nessun problema con la loro nuova contestualizzazione, anzi. In questo momento, per esempio, c’è una gran discussione attorno a cosa vogliamo che significhino le mani congiunte (preghiera? grazie? per favore?). È rarissimo trovare prodotti che rimangano consistenti nella propria estetica per anni, o che restino importanti per più di una decade. I prodotti e gli stili cambiano drasticamente e le emoji sembrano cambiare in modo opposto: crescono in varietà, significato, uso».
Come cambiano (poco) le emoji
Oggi la crescita delle emoji è capitanata dal consorzio Unicode, responsabile della selezione delle nuove icone, che ha gestito negli ultimi anni le operazioni di inclusione etnica e di genere dei nuovi set. Negli ultimi cinque anni, per metà della vita di queste emoji, lo stile grafico dei nostri telefoni è drasticamente cambiato. Le grafiche delle interfacce, una volta ricche di effetti tridimensionali che rendevano i bottoni chiaramente “premibili”, hanno abbracciato un’estetica più minimalista, fatta di distese monocolori e disegni dalle linee sottilissime.
Nel dilagare di questo minimalismo industriale proprio le emoji, così tridimensionali e colorate, sono l’ultimo baluardo di ricercatezza grafica sui nostri schermi, e forse anche per questo hanno assunto un valore così importante nelle nostre vite.
«Credo che le emoji abbiano ormai una vita propria ed è qualcosa che potrà solo crescere col passare degli anni. Rappresentano emozioni, situazioni, eventi… abbiamo un sacco di informazioni da comunicare e pochissimo spazio con cui farlo. Sarebbe impossibile catturare migliaia di emozioni e situazioni con un numero ristretto di colori, o soltanto con un singolo tratto».
Sono solo cose da ragazzi?
È facile sottovalutare le emoji nel linguaggio contemporaneo o considerarle banali giovanilismi. Il loro ruolo nella nostra cultura, al contrario, è invece destinato ad aumentare, rendendole segnali discorsivi e vere e proprie icone della contemporaneità, presenti nell’intrattenimento, nell’arte e negli oggetti di consumo.
«Tutte le volte che vedo una emoji fuori da uno schermo mi viene da ridere. Le scatto una foto e la mando subito a Raymond, poi la aggiungo al mio album di emoji allo strato brado».
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