Il pessimo capo è una specie che – aihmé – non rischia l’estinzione. La puoi trovare dovunque, declinata in varie sottospecie ma sempre con caratteristiche sgradevoli, dalla maleducazione alla manipolazione. Si è addirittura irrobustita con lo smart working e continua a danneggiare i suoi sottoposti. Ma come provare almeno a ridurne l’impatto negativo? Lo chiediamo a Domitilla Ferrari, autrice di Il pessimo capo (Longanesi), saggio che ha scritto forte di un’esperienza trentennale in ambienti di lavoro molto diversi: ha fatto la commessa in un negozio d’abbigliamento per cerimonia, la barista, l’addetta guardaroba in un ristorante a Londra, la modella per parrucchieri, l’ufficio stampa di una compagnia teatrale, la ragazza alla pari. Dopo aver lavorato in aziende di varie dimensioni e aver conseguito un Master in business administration, adesso è Chief Marketing Officer.
Nel libro non racconta solo i suoi boss più nefasti ma raccoglie anche le testimonianze di amiche e amici. Perché, inutile negarlo, chi di noi non ha avuto un pessimo capo? Attenzione, però: il libro non propone un deprimente concentrato di lagnanze e neppure uno sterile invito al tiro a freccette contro il boss di turno. Con ironico realismo l’autrice ricorda che noi siamo anche dei capi: «Magari della tata che si occupa dei nostri figli o della signora delle pulizie o quando da clienti, per esempio, andiamo da una sarta. Tutti, insomma, siamo in grado di peggiorare l’esistenza di altre persone». Quindi, oscillando tra gli accusatori e il banco dei potenziali imputati, facciamoci accompagnare da Domitilla a stanare questi personaggi che ammorbano gli uffici e le nostre vite. Studiarli e riconoscerli è il primo passo per difendersi, capendo che il problema sono loro, non noi.
Qual è la caratteristica universale di ogni pessimo capo a prescindere dal suo carattere, formazione, luogo in cui opera?
«Il pessimo capo non impara, non cambia, non innova, ma trama per far restare tutto com’è. Anche se stesso. Nel libro ne tratteggio tanti tipi, dal rovesciato al procrastinatore (vedi box sopra, ndr), ma spesso dentro la stessa persona si annidano più caratteristiche. Faccio un esempio: un capo maleducato è di norma anche invidioso».
Quello a cui hai dato il nome più disorientante è il “coniglio mannaro”.
«In effetti è proprio il capo che ti disorienta. Ho mutuato il suo nome dal film d’animazione Wallace & Gromit. La maledizione del coniglio mannaro dove un coniglio all’apparenza innocuo viene trasformato in un animale gigante che fa razzie nei giardini. Questo tipo di capo si comporta da amicone e ti dice: “Non ti preoccupare, quello lo faccio io”, poi tu lavori fino a mezzanotte perché lui non ha fatto niente. È pericoloso perché alimenta inimicizie tra i colleghi: ciascuno pensa del vicino di scrivania “Ah, vedi, quello è l’amico del capo”. In realtà, quel capo non è amico di nessuno».
Quali sono per te i capi peggiori in assoluto?
«Il peggiore è quello che non condivide gli obiettivi con il suo team, che non capisce quanto sia importante coinvolgere le persone. E fa cose ingiuste e ingiustificate come cancellarti le ferie all’ultimo momento o ribaltare un progetto senza spiegare perché. Un altro pessimo è quello che si presenta come perfetto. Quando lo incontri a un colloquio di lavoro, ti pare fantastico: riesce a venderti quell’azienda come straordinaria. Ricordiamoci, però, che spesso in quelle situazioni è come essere al mercato: il venditore ti dice sempre che il pesce è fresco».
Terribile è anche il capo manipolatore, quello che ti fa critiche gratuite. Come lo si disinnesca?
«Ignorandolo, non rispondendo alle sue provocazioni. Se ti dice, per esempio, come è successo a me: “Ti vedo stanca” oppure “Ti sei tagliata i capelli, ma stavi molto meglio prima”, rispondi: “Hai ragione”. Prima o poi si stuferà».
Tu ci inviti a “bandire” le emozioni sul lavoro.
«Ma no, racconto anche di quella volta che ho pianto in ufficio e di quella in cui ho urlato. Non credo però all’affermazione: “Io e i miei colleghi siamo una grande famiglia”».
Proprio perché “non siamo una grande famiglia”, come mi difendo dal pessimo capo?
«Bisogna essere corretti ma corazzati, e non lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Anche nei rapporti di lavoro amore e odio ci distraggono. L’emotività ci porta allo sfinimento perché ci sottrae tempo, energie e lucidità. Perdiamo d’occhio una elemento fondamentale che si coglie solo se proviamo a guardare la situazione da fuori: quello che succede con il capo e i colleghi è “solo” lavoro, una parte importante, ma certo non l’unica della nostra vita».
Con lo smart working qual è il capo che può fare più guai?
«Quello che non comprende che il quadro sta mutando. Ricorda un po’ un ragioniere – e io non ho nulla contro i ragionieri perché ho studiato ragioneria – che sa far di conto, ma non si intende di strategia. Un capo così non capisce che in molti ambiti non si lavora più sotto lo stretto e costante controllo del superiore in un orario prestabilito».
«Sul lavoro bisogna essere corretti ma corazzati, e non lasciarsi sopraffare dalle emozioni. L’emotività ci porta allo sfinimento perché ci sottrae tempo, energie e lucidità»
E com’è il pessimo capo in videocall?
«Pare che in Giappone sia stato chiesto a Zoom di prevedere che nelle videocall apparissero in maggiore evidenza i volti di chi era in posizione apicale. E non pensiamo che sia un approccio esotico: da noi i vecchi dirigenti non corrono a prendersi i posti migliori in sala riunione? Occhio poi al capo che si collega sempre prima alle videoriunioni soltanto per ascoltare chiacchiere e pettegolezzi tra i colleghi: conoscerli e alimentarli conferma il suo potere».
È più facile essere un capo o avere un capo?
«Sicuramente avere un capo anche se pessimo, perché bene o male hai una guida. È importante ricordare che essere un capo è un altro mestiere rispetto alla propria professionalità. Si può essere una bravissima ingegnera, per esempio, ma non una manager altrettanto in gamba. Per guidare un team di lavoro occorrono qualità e capacità diverse dalla classica bravura nel fare il proprio lavoro».
Facendo il mestiere di capo, tu cosa hai imparato e, quindi, quali consigli puoi dare?
«Il primo è delegare, perché ho sperimentato che non è un buon capo quello che tiene tutto sotto controllo per paura di perdere potere. Poi bisogna saper dare dei feedback, anche negativi. Può essere difficile, certo, ma se il no è giustificato e se la critica è costruttiva le persone che lavorano con te sentono che le stai aiutando a crescere».
Alla fine, i capi pessimi sono proprio tutti da buttare?
«Ovvio che è bello avere un ottimo capo e io ne ho avuti. Ma se c’è una cosa che riconosco ai miei pessimi capi è che, osservando loro, ho capito come non avrei voluto essere. Sì, i pessimi capi mi hanno resa una persona migliore».
4 tipi di pessimi capi
Nel suo libro Domitilla Ferrari individua tante tipologie di pessimi capi. Eccone, in sintesi, 4.
l. Il cafone: comunica in modo ostentato, urla successi anche quando non ci sono.
2. Il rovesciato: non riesce a entrare nel suo ruolo di leader e continua a comportarsi da collega anziché da guida.
3. Il ragioniere: non ha una visione d’insieme ma conosce il costo di ogni cosa.
4. Il procastinatore: compila liste con compiti da delegare a chissà chi chissà quando.
3 consigli per sopravvivere in un ufficio “tossico”
1. Ricorda che spesso non è tossico l’ufficio, ma il capo. Se il capo è pessimo, il suo team non può funzionare bene.
2. Impara a fare rete: è una competenza sottovalutata, ma serve sia all’interno dell’azienda sia all’esterno per individuare nuove opportunità di lavoro e carriera.
3. Fai un grosso lavoro su te stessa fino ad arrivare, se necessario, a trovare la motivazione ad andartene. In un periodo come questo è certo difficile consigliare di lasciare un posto di lavoro. Ci sono però casi in cui bisogna riconoscere di meritare altro e che fuori da quell’ufficio si potrebbero fare meglio le cose.
IL LIBRO
L’ESPERTA
Domitilla Ferrari è docente di Comunicazione digitale all’università di Padova e lavora come Chief Marketing Officer a Milano. Oltre a Il pessimo capo (Longanesi) ha scritto Due gradi e mezzo di separazione e Se scrivi fatti leggere (entrambi Sperling & Kupfer).