Da quando sono madre perdo moltissimo tempo a tracciare futuri possibili per i miei ragazzi. In 12 anni, ho pensato di essere davanti a un chitarrista ribelle, a un hacker distopico, a un matematico pop, a un grande Lebowski che si gratta il sedere in vestaglia e birretta. La realtà aiuta a ridimensionare le fantasie e così alla domanda «Insomma, ma che scuola vuoi frequentare?», la faccia da blob di mio figlio grande mi spinge a prendere provvedimenti. Il giorno dopo sono in prima fila all’evento più rock del momento: l’open day di una scuola a indirizzo musicale, una delle poche pubbliche a Milano.
La sala è grande, ma non abbastanza da contenerci tutti. Saremo circa in 400: seduti, in piedi, accovacciati. L’atmosfera è da autogestione, solo che qui non si sfumacchia, ci si scatta dei selfie. L’età media è tra i 40 e i 50 anni, qualche ragazzino trascinato lì a forza protesta perché ha finito i giga del telefono. I professori siedono in cattedra, le slide alle loro spalle mostrano qualche dato che dovrebbe incoraggiare a iscrivere i nostri figli, i docenti vengono presentati al suon di “ecco il mitico”. Esco dalla sala con una sensazione da talent, mentre gli allievi improvvisano un concertino e la dirigente si scusa «ma non vi prenderemo tutti». Non prendo nemmeno il tram che mi sfila davanti.
Una visita non basta: serve un progetto di vita per i figli
«L’open day è figlio dell’autonomia scolastica, una delle ultime riforme ministeriali che ha concesso agli istituti la libertà di organizzare didattica e attività extra, posti gli obiettivi comuni per tutti» dice Marzio Rivera, dirigente dell’Istituto comprensivo di Viguzzolo (Al) e membro di Officine Scuola, un team di ricerca sul mondo dell’educazione. «Questa parziale indipendenza ha creato un meccanismo di concorrenza in cui ogni scuola cerca di presentarsi al meglio e di attirare studenti: tecnicamente, la giornata di “porte aperte” è un momento di conoscenza reciproca, ma spesso diventa un evento dove le famiglie si disorientano perché non sono catturate da aspetti sostanziali. L’open day deve essere una integrazione a un orientamento più completo, a un progetto di vita per i figli».
La competizione tra scuole a partire dalle medie – ammettiamolo – ci spiazza: nati in un’Italia dove il criterio territoriale vinceva su tutto, siamo cresciuti frequentando le aule vicino a casa, i più sgobboni finendo in un liceo statale, gli altri in un tecnico, quelli del centro imbucati nelle private. Oggi non è più così, e quando le famiglie se ne accorgono sono già in ritardo. A Milano gli open day di dicembre dedicati agli studenti di terza media sono stati presi d’assalto, al punto che alcuni licei hanno richiesto il codice fiscale dell’aspirante iscritto per scremare gruppi di madri di ragazzi più giovani. Altri si sono concentrati su corsi di cucina, laboratori, giornate peer-to-peer tra i ragazzi, visite guidate a mo’ di museo. «L’anno scorso ho portato Tommaso in un istituto tecnologico dove si studia robotica, ha partecipato a un esperimento, era gasatissimo. Ora che stiamo per iscriverlo ha cambiato idea: vuole fare l’artistico. Non c’è verso di convincerlo» mi dice un’amica. La faccia da blob di mio figlio mi appare dal nulla all’improvviso.
Il pellegrinaggio tra istituti è come il giro shopping
Elisabetta Cassese è mamma di 3 figli, autrice dell’ebook Come scegliere la scuola giusta e blogger del sito www.educazioneglobale.com. Ha una visione molto concreta di quello che sta avvenendo in Italia, anche a distanza di 500 chilometri da me: «A Roma il boom open day è meno intenso, ma c’è. Perché in tutto il Paese stanno accadendo 2 fenomeni simili: l’offerta dell’istruzione registra un calo degli studenti dovuto al calo delle nascite e quindi, se diminuiscono gli alunni, si chiudono le classi e si perdono posti di lavoro. Questo ha reso gli open day delle gare a chi personalizza meglio i progetti extra, dal costoso corso di inglese Cambridge alle Olimpiadi di problem solving. E poi c’è la domanda delle famiglie, che è cambiata».
«Prima la scuola era uno standard per tutti, una “commodity” sotto casa» continua Cassese. «Oggi i genitori hanno più esigenze ma anche più consapevolezza che la scuola pubblica sta fallendo su alcuni aspetti come le lingue straniere, le attività sportive, le discipline musicali. In Italia si apprende tanto in astratto, ma si “fa” pochissimo». Elisabetta dà anche un nome al pellegrinaggio che tra dicembre e gennaio sposta centinaia di genitori da un istituto all’altro: lo chiama “shopping around”, «lo stesso giro che si fa quando si comparano le offerte di un cellulare o di una vacanza. Perché più che mai vale la regola chi ha più soldi e più tempo può andare a scegliersi la scuola migliore».
Chi non ha genitori preparati farà scelte peggiori?
Se l’Italia disponesse di un sistema oggettivo di valutazione, forse l’open day sarebbe un momento meno ansiogeno. Nel mondo britannico, per esempio, esiste il sistema Ofsted, un’autorità indipendente che valuta la qualità delle scuole e dei centri di formazione, va a fare ispezioni, parla con docenti, genitori e studenti. Guardano tutto, anche i bagni, e fanno un rapporto ogni 3 anni, disponibile e gratuito. Il nostro ministero dell’Istruzione fornisce, invece, una scheda di ogni istituto statale, che si autovaluta invece di essere valutato, tramite il portale Scuola in chiaro (cercalatuascuola.istruzione.it). E l’indagine della Fondazione Agnelli Eduscopio dà solo una classifica delle superiori migliori, secondo parametri come i voti alla maturità, che non è detto interessino a tutti.
«Gli open day rendono anche evidente un altro problema» aggiunge il dirigente Marzio Rivera, che con il suo team sta organizzando il salone “Sfide – La scuola di tutti”, dal 23 al 25 marzo a Milano (3 giorni di dibattiti e attività fuori dalle aule per far incontrare docenti, esperti, famiglie e ragazzi). «Da una parte c’è la prevalenza di figli costretti a seguire le orme dei genitori, che spesso hanno fatto il liceo e non considerano le offerte didattiche più innovative. Dall’altra c’è il mondo degli studenti che invece non hanno madri e padri preparati alle spalle e decidono in base a criteri di vicinanza o di semplicità del corso di studi. La deriva? Non solo una perdita di democraticità, ma la palude dell’abbandono scolastico e della dispersione dei potenziali talenti: un ragazzo che sceglie male una scuola superiore, e che non ha nessun progetto di vita chiaro, sarà facilmente una fascia più debole per la società».