Dolore, solitudine, droga. Poi la comunità di recupero. Claudia (il nome è di fantasia per motivi di privacy), 28 anni, rivede la sua storia in quelle di Pamela Mastropietro e Jessica Faoro, le 2 ragazze uccise a Macerata e a Milano all’inizio dell’anno. La loro morte ha scosso l’Italia e spinto Claudia a ripercorrere la propria esperienza. Così simile all’inizio, così diversa alla fine. «Mia madre è rimasta incinta a 20 anni e mio padre l’ha lasciata prima ancora che io nascessi» ricorda. «L’ho visto per la prima volta quando avevo 14 anni, ma poi è sparito di nuovo». Nel frattempo, l’uomo con cui sua madre si risposa non si rivela migliore: «Beveva, era violento con entrambe. Sin da piccola ho assistito a scene terribili, che ti restano dentro». È qui che Claudia comincia a trasgredire. Per ribellarsi a ciò che la circonda, per provare a far ascoltare il suo disagio, in una progressione da manuale: prima l’alcol, poi un gruppo di amici senza orari, infine gli spinelli. A 12 anni. «Mi sentivo inadeguata, non riuscivo a identificarmi nelle altre famiglie». Da quel momento in poi va sempre peggio: «Passando alle superiori allarghi le conoscenze, ma nel mio caso non è stato certo un bene: c’era chi si drogava più di me e io ho seguito loro. A 14 anni ho provato le prime pasticche e da lì in poi ho sperimentato ogni altra sostanza possibile».
«Ho dormito per strada con i senzatetto»
Il tempo passa e Claudia si lega alle persone che possono procurarle quello di cui ha bisogno, allontanandosi da amicizie vere e famiglia. «Rimanevo per strada anche giorni e giorni. A volte restavo a dormire con i senzatetto nel centro storico di Napoli». Spesso frequentava i rave party in giro per l’Italia, con compagnie e furgoni di fortuna. Il caos è inevitabile: a 16 anni Claudia è già nel tunnel di cocaina ed eroina. «Sono state loro a buttarmi giù del tutto» ammette. I soldi che riesce a racimolare non bastano mai: «Non ti alzi la mattina se non hai un pezzo sul comodino e non vai a dormire se non ne hai un altro a fianco. Allora ho cominciato a spacciare, per procurarmi la droga». Claudia è completamente allo sbando, e dopo un periodo trascorso a sniffarla, passa a farsi l’eroina via endovena: «Non avevo più cura di me. L’unica cosa che pensavo era che presto sarei morta per droga». È a questo punto che la ragazza viene agganciata da un gruppo di persone che le propongono di partecipare a una rapina. Lei, 22enne senza più bussola, accetta. «Mi sentivo come se non avessi nulla da perdere» sospira, gli occhi persi nel vuoto.
«Mi sono sentita per la prima volta parte di una famiglia»
Il colpo finisce male, ma per Claudia è, paradossalmente, una fortuna. «Venire arrestata è stata la cosa migliore che mi potesse capitare. Dovevo toccare il fondo per risalire». È in carcere, grazie all’aiuto di alcune detenute («mi hanno fatto da madri» ricorda trattenendo a stento le lacrime), che Claudia decide di provare a cambiare vita. I nonni si attivano: c’è la possibilità, vista la giovane età e i problemi con la droga, di usufruire delle pene alternative al carcere. Claudia trova posto nella onlus “Papa Giovanni XXIII” di Rimini, che la accoglie gratis. «Ero spaventatissima, non sapevo cosa mi attendesse. E invece ho scoperto un forte senso di famiglia. Lì è cominciata la mia rinascita» svela sorridendo. Dopo i primi mesi di assistenza sanitaria e accoglienza, comincia la vera vita in comunità.
«Ci si alza tutti insieme, si fa colazione e poi ognuno è destinato a un un compito: dalla cucina alla lavanderia, fino ai lavori esterni. Così cominci a riappropriarti della tua esistenza, ma soprattutto a responsabilizzarti». Questa, secondo Claudia, è la chiave: «Quando sei l’addetto alla cucina, capisci che non puoi fare come vuoi: se a ora di pranzo non hai finito di preparare, gli altri non mangiano». Il pomeriggio, invece, è dedicato alle attività di gruppo con psicologi e specialisti. Ogni sera, verso le 6, arriva poi il momento del resoconto scritto: «Dovevamo ricordare quanto fatto durante la giornata insieme agli altri compagni, comprese le piccole cose» racconta Claudia. «Anche questo serve a rendersi conto di come sia fondamentale interagire con il gruppo e gioire dei traguardi conquistati con la fatica». Dopo la cena, è la volta di piccoli spettacoli organizzati dagli ospiti della comunità che si occupano del tempo libero.
«Ho capito che non ero l’unica persona a soffrire»
Naturalmente il percorso di uscita da dipendenze che sono fisiche ma anche psicologiche rimane lungo e tortuoso. «Soprattutto all’inizio sei assalito dal desiderio di andare via, sei devastato, ma a poco a poco capisci che devi resistere». Parallelamente prosegue il periodo terapeutico, che varia da persona a persona. «Il mio è durato 2 anni, poi mi hanno detto che sarei passata all’ultima fase»: il reinserimento in società, per il quale vengono proposte esperienze lavorative o di volontariato. «Ricevi una retta, circa 100 euro al mese, con cui impari di nuovo a far fronte alle tue spese. Ed entro mezzanotte devi tornare in comunità». Claudia sceglie di entrare nell’unità di strada per il supporto alle prostitute: «Ho lavorato lì per 6 mesi e ho capito che al mondo ci sono sofferenze ben più gravi della mia. Volevo continuare a fare qualcosa per gli altri».
Merito della vicinanza discreta del personale e dei programmi che si portano avanti, come la “storia della vita”: «Con un operatore descrivi il tuo passato, toccando vari tasti, dall’affettività alla famiglia fino all’amicizia. Lo scopo è capire perché tu abbia adottato quello stile di vita». Finché arriva il momento di tornare nel mondo reale: «Ero eccitata e impaurita. Dopo 2 anni in cui non vieni lasciata mai sola, non è facile. La comunità è un universo parallelo dove tutti ti danno una mano. La società, fuori, è molto diversa». Oggi Claudia può dire di essere riuscita a vincere le sue paure: è piena di vita, ha mille idee ed energie. «Ho ripreso gli studi, mi sto laureando in Scienze della formazione perché voglio continuare a sentirmi utile. Vorrei scrivere la tesi sull’ippoterapia. Credo molto nel potere terapeutico dei cavalli: sono riuscita ad avviare un progetto in questo senso in Campania».
1 su ragazzo su 2, però, scappa
I più recenti dati disponibili, pubblicati dalla Commissione parlamentare Infanzia, fanno riferimento al 2015 e parlano di 20.000 ragazzi ospitati dalle comunità di recupero. La metà ha meno di 18 anni e, fra loro, sono 1.957 quelli che scontano in queste strutture la pena alternativa al carcere. Sono 2 le criticità del sistema: la prima è che nel 95% dei casi ci si rivolge a realtà private rimborsate solo in parte dai SerT, dato che le comunità pubbliche oggi sono soltanto 10 in tutta Italia. La seconda ci riporta direttamente alle storie di Pamela e Jessica: «I dati» osserva la relazione «rivelano 49 uscite arbitrarie ogni 100 collocamenti, in forte crescita rispetto alle 31 su 100 del 2010».
I segnali da osservare
È possibile adottare delle strategie capaci di ridurre il rischio di caduta nella tossicodipendenza: ne è convinto Andrea Fagiolini, ordinario di Psichiatria all’università di Siena. «In un recente studio ancora in fase di pubblicazione» spiega il professore «abbiamo valutato un campione di 105 tossicodipendenti, per capire quali sintomi fossero presenti prima che iniziassero ad abusare di droghe. È la prima ricerca di questo tipo in Italia». Risultato? «La quasi totalità dei ragazzi intervistati mostrava sintomi come sbalzi dell’umore, depressione, ansia, riduzione degli interessi, senso di vuoto, ricerca di sensazioni forti, ben prima di cominciare a usare sostanze stupefacenti. Spesso anche a 10-11 anni». Esattamente come Claudia. L’impressione, dunque, è che la tossicodipendenza possa essere, almeno in alcuni casi, «più l’effetto che la causa di malattie psichiatriche». Insomma, conclude Fagiolini, l’ipotesi è che «un trattamento precoce di questi sintomi potrebbe ridurre il rischio di sviluppare una tossicodipendenza».