Le scuole sono state le prime a chiudere, nella prima ondata di pandemia da Covid, e le ultime a riaprire e neppure al 100%, se si pensa alle superiori. Adesso stanno man mano chiudendo in ogni Regione, visto l’aumento dei contagi. Fino a qualche mese fa, però, i dati indicavano una scarsa percentuale di contagi da coronavirus tra gli studenti. Adesso, invece, qualcosa sembra essere cambiato: secondo alcuni studi, pubblicati su riviste accreditate come The Lancet e Science e condotti su campioni di studenti under 19, l’attività scolastica sembra indicata come “a rischio”: la ripresa delle lezioni in presenza, infatti, avrebbe fatto aumentare l’Rt del 25%, mentre la chiusura degli istituti lo avrebbe ridotto del 35%. Perché? È davvero “colpa” delle scuole o la causa è da attribuire al periodo pre e post lezione, quindi i mezzi pubblici o i ritrovi dei ragazzi extrascolastici?
Sulla questione è intervenuto Giovanni Sebastiani, matematico dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo ‘Mauro Picone’ del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Iac).
Scuola e contagi: che rapporto c’è?
Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista The Lancet, riferita ai dati del ministero dell’Istruzione nel periodo dal 26 settembre al 10 ottobre 2020, l’influenza della scuola sull’andamento dei contagi sarebbe stata minima. Da quanto emerso da una ricerca di Fondazione Kessler e Istituto Superiore di Sanità, pubblicata sulla rivista Pnas, nella fascia 0-13 anni ci sarebbe un impatto limitato della frequenza scolastica sull’andamento dei contagi complessivi, analizzati in base all’indice Rt. La situazione cambierebbe, invece, con l’aumentare dell’età degli studenti, in particolare nella fascia 14-19, dove si parla di conseguenze “importanti”. «In effetti è così: gli studi internazionali lo confermano ed è il motivo per cui io stesso avevo un atteggiamento di cautela nei confronti della riapertura delle scuole a gennaio, a cui è seguito un aumento dei casi di positività. Non a caso, le Regioni che hanno riaperto prima le scuole, hanno anche registrato prima un aumento maggiore di pazienti COVID-19 ricoverati in terapia intensiva – spiega Sebastiani – Diverso, invece, è il discorso per i più piccoli, sui quali sembrano pesare le varianti».
Il boom delle ultime settimane
Tutti gli studi internazionali finora hanno confermato una scarsa incidenza della frequenza scolastica nella fascia degli under 11 sul numero di contagi complessivi della popolazione in diversi Paesi, come Regno Unito e Stati Uniti, ma anche in Italia, dove lo stesso Sebastiani ha analizzato l’andamento dell’epidemia in Piemonte in relazione all’apertura delle scuole: «Pur essendo stata tra le prime regioni a riaprire le scuole dopo la prima ondata, ho rilevato un aumento di contagi solo nella fascia d’età sopra agli 11 anni, in relazioni a parametri come l’occupazione delle terapie intensive. Tutti i lavori scientifici prodotti fino a gennaio hanno mostrato come i bambini più piccoli erano pressoché esclusi dalla trasmissione» dice l’esperto.
Da qualche settimana, invece, cresce il numero di casi di positività al virus anche tra gli studenti più giovani, come alle medie, elementari e persino in scuole materne e asili nido. Perché? «Su questo non ci sono ancora dati statistici certi, ma evidenze date dalle segnalazioni degli istituti, con l’aumento delle quarantene. I motivi possono essere diversi: nel caso dei più piccoli è ipotizzabile che sia da attribuire alla circolazione delle varianti, in particolare di quella inglese» dice Sebastiani.
Dove si contagiano i giovani?
«Diverso è il discorso per quanto riguarda la fascia d’età 14-19 anni, per la quale fin dallo scorso autunno, in concomitanza con la seconda ondata, abbiamo rilevato un aumento dei contagi, con la ripresa dell’anno scolastico. In questo caso i motivi sono molteplici e riguardano soprattutto le attività extrascolastiche, quindi i mezzi di trasporto, ma anche gli incontri prima e dopo la scuola. Il problema è che sono inscindibili dalle lezioni in classe, dove invece ci sono misure di protezione e controlli. Purtroppo ciò che accompagna la didattica in presenza interessa un totale di 9 milioni di persone, tra studenti, personale docente e ATA, per cinque giorni alla settimana, quindi l’impatto si fa sentire» spiega il matematico.
Le scelte degli altri Paesi
Di fronte alla scelta se tenere aperte le scuole o chiuderle, i Paesi hanno seguito criteri differenti: ad esempio, la Germania ha optato per un lockdown di tre mesi, con la didattica a distanza, mentre in Francia gli studenti non hanno mai smesso di frequentare le lezioni in classe. Perché? «Si tratta di scelte soprattutto ‘politiche’: in Francia si è privilegiato il criterio della libertà e attenzione ai più giovani, mentre la Germania ha adottato una posizione più conservativa per salvaguardare categorie fragili come gli anziani, i nonni. Ma in nessun caso si è fatto ricorso a dati scientifici o a standard di sicurezza maggiori o minori, né a scuola né sui mezzi di trasporto. La scelta della Francia non è però senza costo. L’incidenza media di positivi nel Paese da ottobre 2020 a circa metà febbraio 2021, infatti, è stata di 32 casi al giorno per 100.000 abitanti, a fronte dei 18 della Germania» spiega Sebastiani.