La vicenda della chat The Shoah Party riguarda tutti noi e i nostri figli. Non possiamo girarci dall’altra parte e neanche dire «A me non capiterebbe». Stavolta magari no, magari non una situazione così al limite, ma nessuno di noi è al riparo dal rischio che il cellulare dei nostri figli ne riveli un’identità “nascosta”. Soprattutto, nessuno di noi può e deve sminuire certi comportamenti nel momento in cui – suo malgrado – li venisse a scoprire. Se non fosse stato per quella madre che ha denunciato, forse oggi non ne sapremmo nulla. E magari non ci porremmo certe domande anche sui nostri, di figli.
La vicenda
Tutto è partito da lei che nell’aprile scorso si è recata dai carabinieri di Siena per denunciare di aver trovato nello smartphone del figlio 13enne video pedopornografici. Da lì è scattata un’indagine che ora vede indagati 25 ragazzi di diverse città italiane, 16 minorenni, tra i 13 e i 17 anni e 9 maggiorenni tra 18 e 19 anni. I ragazzi si scambiavano video a luci rosse, con sesso tra animali, bambini e bambine, violenze sessuali, e poi scritte inneggianti a Hitler, Mussolini, all’Isis con frasi choc contro migranti ed ebrei. Il 16enne creatore della “chat dell’orrore” (così è stata battezzata), intervistato da Repubblica, racconta di essere appassionato di fisica quantistica, di voler fare il medico e di aver creato il gruppo per scherzare: «Mi piace sdrammatizzare sulle cose, anche sul nazismo. A un certo punto la situazione mi è sfuggita di mano, ma per pigrizia non sono uscito dal gruppo».
Le vite parallele dei nostri figli
Possibile che un ragazzo così “a posto” sia il regista di questo orrore? Colpisce come un pugno nello stomaco l’intervista a Rainews24 della dottoressa Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza. «Certi indicatori di benessere – come il fatto di andare bene a scuola e non usare parolacce – non esprimono ciò che un ragazzo è davvero. Spesso i genitori puntano troppo sulle prestazioni, sulla scuola e non su ciò che sono i ragazzi. L’errore oggi è credere che chi scrive bestialità nelle chat abbia necessariamente gli stessi comportamenti anche in altri ambienti. Purtroppo non è così. A casa e a scuola possono anche sembrare “bravi ragazzi” ma poi essere anche qualcos’altro, soprattutto in un contesto protetto come quello delle chat». Si sgretolano così, in un attimo, le presunte certezze di tanti tra noi che siamo genitori di ragazzi “nella norma”, senza apparenti devianze: le nostre famiglie “tranquille”. E ci chiediamo, noi “tranquilli”, se non l’abbiamo fatto prima, che cosa si nasconda in realtà dentro ai loro cellulari. È difficile ma a un certo punto, quando le nostre bambine si stanno arrotondando e ai maschi cambia la voce, dobbiamo avere il coraggio di guardare ciò che stanno diventando e come si proiettano nella rete. È da lì che viene fuori il loro profilo. Guardare il loro cellulare oggi è come scrutare la loro anima, leggerne il vero ritratto psicologico.
Loro minimizzano, noi proteggiamo
Dobbiamo quindi spiare i loro cellulari? Per la dottoressa Manca sì, è giusto. Perché un conto è spiarli per pura curiosità, un conto è sorvegliare la loro vita. Chiediamocelo anche noi, se sia giusto, e facciamolo se siamo pronti ad accettare ciò che ci possiamo trovare dentro. Teniamo comunque sempre presente che se hanno diritto a ribellarsi a una regola che ritengono ingiusta, come gli orari o certe imposizioni scolastiche, non hanno il diritto di sminuire certi comportamenti, soprattutto quelli virtuali. E non lo dobbiamo fare noi. Alcuni dei genitori contattati dalla mamma che poi ha denunciato, hanno relativizzato, proteggendo i figli («Mio figlio certe cose non le fa»). Gli stessi figli che, intercettati poi dai carabinieri, minimizzano il disvalore in una sorta di goliardia e superficialità dove tutto annega e viene diluito. «Sono violenti inconsapevoli» dice la dottoressa, agganciati allo stereotipo del nazismo, senza neanche sapere cos’è. Ma se non restituiamo loro consapevolezza, un giorno gli stessi ragazzi rischiano di diventare dei violenti veri. Questo dobbiamo combattere. Dobbiamo restituire alla nostra e alla loro coscienza la consapevolezza del significato delle parole. Capire e far capire che le parole hanno un peso, nelle chat come nella vita.
La parola in rete ha una sua “fisicità psichica”
Il problema è che per i nostri ragazzi il telefonino è un’appendice corporea e intellettuale, non riescono a vivere senza, è una propaggine del proprio ego. Purtroppo, più manca il dialogo, più si usano le chat, ed è lì che il telefonino diventa un “manganello”: un’iperbole molto efficace che usa il procuratore della repubblica al tribunale dei minori di Firenze Antonio Sangermano, intervistato da Radio24, per esprimere la forza del gruppo e la debolezza con cui i più deboli si lascino coinvolgere. «I nostri figli galleggiano in un vuoto di valori riempito dal mito della forza, della bellezza e della ricchezza. Pensano che quello che si dice o si fa in rete o nei social, proprio perché virtuale, sia meno lesivo di un atto violento corporeo, fisico. Ma non è così. Invece è proprio la natura dell’atto virtuale, cosi pervasivo, che lo rende ancora più grave. Dobbiamo capire e spiegar loro che la parola o il gesto virtuale ha una sua “fisicità psichica” non meno importante di quella reale».