Lo scorso 20 marzo, l’annuncio del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan di ritirare il Paese dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica ha fatto velocemente il giro del mondo. Nelle principali città turche, da Istanbul ad Ankara a Smirne, i movimenti che da anni si battono per i riconoscimento dei diritti delle donne sono scesi in piazza a protestare, mentre la comunità internazionale ha immediatamente condannato la repentina decisione del governo turco, di cui non si comprendono ancora bene le motivazioni e che potrebbe anche non attuarsi.
La Convenzione è comunemente conosciuta come “Convenzione di Istanbul” proprio perché fu finalizzata per la prima volta nella città turca nel 2011, con la Turchia prima firmataria e prima fervente sostenitrice. Il 1° luglio il decreto voluto da Erdogan a marzo diventa effettivo. In Italia i docenti e ricercatrici/tori delle università riuniti nella rete UN.I.RE. (Università in Rete contro la violenza di genere), impegnate da anni per l’attuazione della Convenzione di Istanbul, avevano lanciato un appello alle istituzioni europee e italiane per spingerle a fare pressione sul governo di Istanbul.
La Convenzione è necessaria
Molti analisti hanno inizialmente pensato si trattasse di un annuncio fatto da Erdogan a scopo puramente politico, probabilmente per avere l’appoggio della parte più conservatrice della società turca e avere più potere d’azione nelle trattivi internazionali, un atto da inserire nel solco della svolta autoritaria che il suo governo ha preso negli ultimi anni.
Questioni geopolitiche a parte, però, la Convenzione rimane a tutt’oggi «l’unico strumento giuridicamente vincolante che permetta a un Paese di orientarsi e darsi degli strumenti per prevenire la violenza di genere, proteggere chi la subisce e punire chi la commette», come spiega a Donna Moderna Simona Lanzoni, vice-presidente di Grevio, l’organismo di esperti indipendenti responsabile del monitoraggio dell’attuazione della Convenzione. Uno strumento che diventa ancora più necessario dopo la pandemia, che ha visto i casi di violenza aumentare praticamente in tutto il mondo: una pandemia nella pandemia, che rende la battaglia delle donne turche la battaglia di tutti.
Perché ci deve preoccupare l’annunciato ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul?
«La Convenzione di Istanbul è il primo e unico trattato specifico per contrastare la violenza sulle donne, che è poi la prima forma di violazione di diritti umani al mondo. Purtroppo in molti Paesi non sono ancora state implementate tutte quelle disposizioni, che la Convenzione stabilisce, per eliminare la violenza di genere o quantomeno farla decrescere. La ratifica della Convenzione è avvenuta per la prima volta nel 2011 proprio a Istanbul, dove si è finalizzato il testo, e la Turchia è stato il primo Paese che l’ha ratificata. L’Italia è tra i primi 10 Paesi ad averla firmata e ratificata. Il fatto che il presidente della Turchia abbia deciso, con un decreto presidenziale, di annunciare l’uscita dalla Convenzione è un segnale fortissimo che ci preoccupa molto, perché si tratta di un impegno comune a riconoscere, individuare e perseguire gli autori di violenza: ritirarsi da quell’impegno mette in qualche modo in discussione queste fondamentali disposizioni a protezione dei diritti umani. È una Convenzione vitale, perché definisce cosa uno stato può fare per far fronte questo enorme problema. Tra l’altro stiamo parlando di un decreto presidenziale che non è stato, almeno per quanto ne sappiamo, sostenuto da un dibattito parlamentare, per cui si sta cercando di capire se l’uscita dalla Convenzione è supportata dal Paese: la ratifica d’altra parte è stata fatta per atto parlamentare e per sempre per atto parlamentare se ne dovrebbe decidere l’uscita. Il Consiglio d’Europa sta quindi cercando di verificare se questa volontà è reale, ma di fatto il messaggio che questo atto, che non è qualcosa di nuovo ma è certamente molto forte, manda alle autorità e soprattutto alle donne in Turchia, è decisamente pessimo. Chi oggi sta subendo violenze in Turchia penserà che difficilmente verrà protetta dalla violenza di cui è vittima».
Non sono neanche chiare le motivazioni di questa scelta.
«Esatto, l’unica motivazione addotta è che la Convenzione sarebbe “contro” la famiglia o, in qualche modo, “a favore” dei movimenti Lgbtq+. La Convenzione chiede di punire chi commette violenza: sappiamo che molto spesso questi episodi avvengono all’interno del contesto familiare e il fatto che una donna voglia scappare da chi le fa violenza, anche se è il marito, il partner o il padre, non vuol dire che è una rovina famiglie. Al contrario, chi rovina la famiglia è chi compie quella violenza. Per questo abbiamo bisogno di una nuova narrazione intorno al tema, inquadrando la violenza per quello che è. La Convenzione non distrugge le famiglie, le protegge».
Dopo il caso di Sarah Everdon, recentemente uccisa a Londra, si è parlato del fatto che neanche il Regno Unito ha ancora ratificato la Convenzione, pur avendola firmata. Il problema, insomma, non conosce confini geografici.
«Il Regno Unito ha avuto dei problemi, relativi alla Brexit, che hanno rallentato i procedimenti di ratifica, ma il caso della Turchia è di tutt’altro tipo. In ogni caso, con Grevio monitoriamo la situazione in moltissimi Paesi e non ce n’è uno in cui questo problema non esiste. Ci sono dei Paesi che sono più diligenti rispetto ad altri, ma le forme di violenza ci sono ovunque ed è quella la cosa che dovrebbe impressionarci. Si tratta davvero di una donna su tre, e non è dovuto al fatto di trovarsi nel Regno Unito, in Francia o in Scandinavia. Certo ci sono Paesi che si sono strutturati meglio, come la Spagna, ma anche lì esistono dei gap. Ci sono poi Paesi molto conservatori, come la Bulgaria e l’Ungheria, che non hanno mai ratificato la Convenzione. Alla sua introduzione, però, la Turchia ne era stata una fervente sostenitrice ed è per questo che questo annuncio ci colpisce ancora di più: qualcosa è cambiato, e non riusciamo a capire perché e perché in maniera così repentina. Bisognerà vedere se questa intenzione verrà portata a termine: è qualcosa che succederà veramente o è qualcosa che i movimenti delle donne, il Parlamento stesso, la pressione internazionale riusciranno a fermare? Ci auguriamo sia così e ci auguriamo che se ne continui a discutere perché i Paesi che hanno creato un blocco su questo tema si aprano: la Bulgaria, per esempio, ha fermato la ratifica della Convenzione di tutta l’Unione Europea. Non è possibile non riconoscere questa forma di violazione dei diritti umani, è un po’ come non riconoscere l’esistenza del Covid-19».
La pandemia, tra l’altro, ha aumentato il numero di episodi di violenza praticamente ovunque, dall’Europa all’America alla Cina. «Assolutamente, la violenza di genere è aumentata ovunque. Con la pandemia, le donne si sono ritrovate a essere costrette a vivere con il loro maltrattante per lunghi periodi di tempo dettati dalle varie chiusure, e questo ha aumentato l’aggressività di chi faceva loro violenza e, di conseguenza, è aumentato il rischio per la vita di quelle donne. In Italia, i femminicidi nei mesi di lockdown sono aumentati e anche la Turchia ha un grande problema di femminicidi [quelli riportati nell’ultimo anno erano più di 300, ndr]: è qualcosa di molto serio, che non possiamo sottovalutare. I diritti umani non dovrebbero mai essere oggetto di contrattazione: la Convenzione è l’unico strumento giuridicamente vincolante che permetta a un Paese di orientarsi e darsi degli strumenti per prevenire la violenza di genere, proteggere chi la subisce e punire chi la commette. Non stiamo dicendo chissà che cosa, è un concetto basilare. Ce lo dicono i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, delle Nazioni Unite ma anche quelli della European Union Agency for Fundamental Rights (FRA) [l’agenzia dell’Unione Europea che monitora i diritti fondamentali, ndr]: una donna su tre, da diciassette ai sessant’anni, ha vissuto una forma di violenza, fisica o sessuale, nel corso della sua vita. È una pandemia non riconosciuta».