Cucinare rilassa, se non tutti, almeno buona parte di chi si dedica ai fornelli (non nella routine quotidiana, alle prese con tempi stringati dopo una giornata di lavoro). Mettersi in cucina, però, può diventare anche una “palestra per la mente” con effetti benefici pari a quelli di una terapia di riabilitazione: può aiutare chi ha problemi neurologici dopo un ictus o un trauma cranico oppure soffre di Alzheimer. È utile anche a chi ha disturbi psichiatrici come schizofrenia, dipendenze da alcol e droga o disturbi dell’alimentazione come anoressia nervosa. Preparare ricette fa bene anche a chi ha Sindrome di Down e disturbi dello spettro autistico. La prova? Arriva da una serie di studi sul cervello degli chef, i “principi della cucina”.
La cucina palestra della mente
Esattamente come con la musica o la matematica, anche le operazioni di cooking seguono una logica e richiedono funzioni cognitive particolari. Ma come può diventare una terapia di riabilitazione? «Le componenti basilari del cooking sono la capacità di sincronizzare (detta anche timing) e di programmare (sequencing) le attività da svolgere per raggiungere l’obiettivo» spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato e ricercatore del CNR, autore del libro La Cooking Therapy (Franco Angeli) nel quale spiega come si è arrivati a queste conclusioni.
Gli chef e lo sviluppo della “materia grigia”
Gli studi di Cerasa sono iniziati nel 2016 con l’osservazione dei dati di risonanza magnetica sul cervello degli chef che poi sono stati messi a confronto con quelli di impiegati, studenti e artigiani. Il neuroscienziato, che lavora con pazienti psichiatrici e neurologici, ha scoperto che «la capacità di preparare continuamente centinaia di piatti e di dirigere altre persone porta i capi cucina ad avere un cervelletto ipersviluppato. Si tratta dell’area che si occupa della programmazione cognitiva, quindi non solo della coordinazione dei movimenti, ma anche dei pensieri: bisogna ricordarsi i passaggi delle ricette, passare da una fase a un’altra senza perdere il filo, mantenere l’attenzione su alcuni particolari per lunghi periodi». Cerasa, insieme all’Istituto S. Anna di Crotone e agli chef Antonio Biafora, Caterina Ceraudo e Luca Abbruzzino, ha messo a punto il Cooking rehabilitation protocol, un protocollo pensato per le persone affette da disabilità cognitiva dovuta proprio a danni al cervelletto.
Cos’è il protocollo di riabilitazione
Il protocollo si suddivide nelle tre classiche parti in cui è composto il menù della cucina italiana: antipasto, primo e secondo. Sono previste 18 ricette, ognuna delle quali prevede due portate (carne e pesce). Ogni ricetta è caratterizzata da tre livelli di difficoltà, ciascuna con un numero di sequenze richieste per eseguirle da 5 a 7. Passando da un livello all’altro aumentano sia le azioni necessarie sia il numero di alimenti da cucinare.
«Tutte le ricette condividono un alimento specifico, il sugo al pomodoro, che diventa anche la parte comune preparata durante ogni singola sessione di cucina. La ripetizione continua di una specifica sequenza motoria dovrebbe stimolare le capacità di apprendimento procedurale nei pazienti con danno a livello del cervelletto» spiega l’esperto. Man mano che aumenta il livello, cresce anche la difficoltà: «In questo modo le capacità di sequencing vengono allenate contemporaneamente a quelle di timing e di memoria procedurale» dice Cerasa.
La cucina come “terapia” con tossicodipendenti e non solo
Ma la cucina non è solo coordinazione o sequenza di azioni: «La cucina è odori, ricordi, immaginazione, improvvisazione, allegria, sentirsi impegnati in qualcosa di utile, essere vicini agli altri, è tradizione, cultura, regole, ordine: è liberatoria. Per questo ha risvolti positivi anche sull’emotività e la socializzazione» spiega Cerasa, che nel libro raccoglie una serie di esperienze pratiche di Cooking Therapy nel mondo e in Italia: «Il personale medico della comunità di San Patrignano, ad esempio, la utilizza con gli ex tossicodipendenti che generalmente sono persone che pensano prevalentemente a se stessi, mentre con la cucina si dedicano agli altri, distolgono l’attenzione dalle droghe e recuperare un altro piacere della vita. A Loreto, invece, c’è un ristorante interamente gestito – dalla cucina al servizio ai tavoli – da ragazzi con sindrome di Down. Anche nei bambini con disabilità speciali, autismo o deficit cognitivi che portano a isolarsi, cucinare aiuta a socializzare, a sentirsi utili e uguali agli altri. Se gli chef di professione hanno un cervelletto maggiormente sviluppato, tutti possono comunque allenarsi e allenare la mente» dice Cerasa, convinto che le attività richieste in cucina siano paragonabili a quelle di un direttore d’orchestra o di un primario in sala operatoria, quindi possano essere «utili anche ai manager, almeno quanto i corsi di formazione online nella gestione del personale e nella creazione del team building, del fare squadra».
Le “ricette” che aiutano chi soffre di anoressia nervosa
Per ogni categoria di paziente a cui è rivolta la Cooking Therapy esiste un percorso specifico: «Ad esempio, le ragazze che soffrono di anoressia nervosa “scappano” da carboidrati, dolci, olio e latticini, mentre preferiscono verdure e legumi, perché sono ricchi di acqua, saziano velocemente e sono ritenuti meno calorici. In questo caso è importante giocare con i colori, evitando di preparare la classica pasta al pomodoro, ma prediligendo sughi di verdure con zucchine, basilico o lenticchie frullate, che siano dunque verdi o marroni e assomiglino ai cibi “amati”». Un altro consiglio è di preferire espressioni come “un pugno di pasta” piuttosto della classica grammatura (50, 80 o 100 grammi). «È comunque importante che siano loro a cucinare perché in genere, come confermano gli studi degli psicologi, conoscono molto bene ingredienti e proprietà» dice l’esperto.
Alzheimer, come far cucinare
Trattandosi di persone con «un alto deterioramento delle funzioni cerebrali si dovrebbe privilegiare la manipolazione piuttosto che l’uso di strumenti e oggetti che potrebbero essere più pericolosi, come maneggiare pentole sul fuoco di cui ci si potrebbe dimenticare. Le ricette devono quindi essere molto semplici, perché si tratta di persone che hanno poca o minima capacità di memorizzare» dice l’esperto, che consiglia di puntare su uno dei cinque sensi, come l’olfatto: «Permette di memorizzare meglio, associando un odore o un profumo particolarmente intenso a un’azione specifica» dice Cerasa. Anche la vista potrebbe essere utile nell’associare ogni atto a un rinforzo: far lavorare con le mani, abbinare i sapori a colori sgargianti come rosso, giallo e verde, aiuta a ricordare le sequenze di una ricetta, proprio come il tatto negli ipovedenti» conclude il ricercatore del CNR.