Cento grammi possono salvare una vita. È questo il peso del sangue contenuto nel cordone ombelicale. Leggero come una piuma ma prezioso come l’oro perché può essere usato per i trapianti di midollo osseo nei malati di leucemia, soprattutto nei più piccoli. Ogni mamma dopo il parto può donarla, questa speranza. Eppure poche lo sanno. E pochissime lo fanno. Tanto che questi gesti così generosi sono sempre meno. Basta un dato per rendersene conto: nel 2013 sono state donate 23.000 unità di sangue del cordone ombelicale, nel 2019 si è scesi a nemmeno 10.000. In Italia esistono 18 banche per conservarle. Qui il materiale viene analizzato per conoscere la quantità e la qualità di cellule presenti e la tipizzazione, ossia i geni che determineranno la compatibilità per il trapianto. Poi viene congelato e può essere conservato anche per 20 anni.
Perché il sangue del cordone è prezioso
«È ricco di cellule staminali ematopoietiche, quelle che servono per creare il sangue e il midollo» spiega il professor Martino Introna, responsabile scientifico del laboratorio di terapia cellulare Gilberto Lanzani all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Sono le prime che circolano nell’organismo e quindi durano di più, il loro compito è proprio produrre sangue e lo eseguono alle perfezione per tutta la vita. Ecco perché sono utili nei trapianti. Per raccorglierle, alla fine del parto l’ostetrica taglia il cordone, lo svuota in un tubicino sterile, lo versa in una provetta che viene trattata con anticoagulanti e poi lo invia alla banca più vicina». La procedura è normata: l’ospedale deve essere autorizzato e tutti gli operatori, dall’ostetrica a chi si occupa del trasporto, seguono corsi di formazione specifici. «Per la mamma e il bimbo non cambia nulla: non è fastidioso o pericoloso perché il cordone è già tagliato» aggiunge il medico.
Gli ospedali non informano le donne
Sulla carta, quindi, tutto sembra perfetto. Peccato che i numeri dicano il contrario, con le donazioni più che dimezzate in 6 anni. E l’equazione “meno nascite, meno sangue cordonale” non spiega bene il fenomeno. «Manca un’informazione capillare: a volte le donne scoprono l’iniziativa ai corsi preparto o tramite passaparola e gli ospedali non seguono un protocollo organizzato in questo senso» denuncia il professor Introna. «A me ne hanno parlato durante il corso preparto che ho fatto per la prima gravidanza all’ospedale di Busto Arsizio e mi è sembrata una iniziativa bellissima» racconta Serena, 34enne impiegata di Varese e mamma di 3 bimbi. «Prima del ricovero mi hanno chiesto di compilare dei moduli con la mia anamnesi, quella del papà, dei nonni materni e paterni, e una serie di quesiti su malattie, viaggi all’estero e altro. Le domande sono tante ma si può contare sull’assistenza di un’ostetrica se ci si trova in difficoltà. In sala parto è sempre stato tutto tranquillo e indolore. Certo io sono riuscita a donare perché ho partorito durante la settimana. Se le doglie fossero arrivate nel weekend il mio cordone sarebbe finito nell’immondizia. Nel mio ospedale la raccolta viene fatta solo dal lunedì al venerdì».
I problemi nella raccolta
La burocrazia quindi sembra ostacolare un po’ il percorso e potrebbe demotivare donne meno decise di Serena. «In effetti il percorso per la documentazione potrebbe essere migliorato ma teniamo presente che tutto deve essere rigoroso: dobbiamo essere sicuri che quel sangue non trasmetta patologie » precisa Nicoletta Sacchi, direttrice del Registro italiano donatori midollo osseo, che ha sede all’ospedale Galliera di Genova. «Ed è vero, purtroppo, che la raccolta non si può fare sempre e ovunque: in Italia i punti nascita considerati idonei sono 207, meno della metà, e non funzionano 24 ore su 24 perché non ci sono abbastanza operatori specializzati. Servirebbero più fondi». Ma c’è anche dell’altro. «A volte capita che la raccolta non possa essere fatta al meglio, per esempio per problemi in sala parto come un’emorragia della mamma. O che il sangue non sia sufficiente. Il numero delle cellule staminali emopoietiche è proporzionato al peso del neonato. Se è basso non possiamo usarlo per un trapianto di midollo visto che, nel 70% dei casi, queste operazioni riguardano gli adulti e serve più materiale» continua la dottoressa Sacchi. Ed è quello che è successo a Serena con il terzo figlio «Quando è nato, l’ostetrica mi ha avvisato subito che purtroppo c’era poco sangue. Ho sentito una fitta di dispiacere ma mi hanno spiegato che sarebbe stato utile comunque per la ricerca».
Del cordone non si butta via niente
A conti fatti nel 2019 su meno di 10.000 unità raccolte solo 600 sono risultate idonee per un potenziale trapianto e conservate in una delle 18 banche. La scienza, però, per fortuna fa dei passi avanti. «Grazie a nuovi farmaci che evitano il rigetto, oggi si esegue molto di più il trapianto aploidentico, da un donatore parzialmente compatibile. E tutti hanno almeno un fratello o un parente che lo è» precisa Martino Introna. «Ma tutte le sacche di sangue cordonale che vengono raccolte, anche quelle che non possono essere usate per i malati di leucemia, sono preziose: si usano in nuovi studi, per produrre un gel piastrinico e un nuovo collirio ma anche per le trasfusioni ai neonati prematuri».
Occorre informare di più le mamme
Il calo delle sacche preoccupa gli esperti del settore. «Purtroppo il segno meno campeggia in tutte le donazioni, a partire da quelle classiche del sangue» nota la dottoressa Nicoletta Sacchi. «Ci vorrebbero delle campagne di sensibilizzazione efficaci. Le mamme in attesa dovrebbero sapere che le cellule del cordone ombelicale hanno salvato la vita a persone per cui non c’erano donatori compatibili. E che continueranno a essere l’unica speranza per altri malati. Oggi, per esempio, con una società sempre più multietnica stiamo osservando un nuovo fenomeno. Sono rarissime le donazioni utili per gli stranieri o i figli di coppie miste». In fondo, basterebbe davvero poco. «Compilare i documenti è un po’ ostico, ma alla fine ci avrò messo poco più di un’ora» racconta Benedetta, romana, 40 anni e una bimba di 4. «Qualche tempo dopo, l’ospedale mi ha mandato un certificato con tanto di ringraziamenti. L’ho appeso sopra il lettino della piccola e un giorno le racconterò che con quelle cellule hanno fatto rinascere una persona, magari dolce e piccina come lei».