Giuseppe Grande è un imprenditore agricolo di Vigone (Torino). Coltiva ortaggi, soprattutto zucchine, per la grande distribuzione. Ma quest’anno potrebbe non riuscire a raccogliere tutti i suoi prodotti. «Il picco della mia stagione va da marzo a novembre» racconta. «Dei 35 addetti di cui ho bisogno in queso periodo almeno 20 arrivano dalla Romania. Sono lavoratori fidati, gli stessi da tempo, eppure stavolta molti di loro hanno scelto di non venire».

Quella di Grande non è una situazione isolata: secondo Coldiretti, i braccianti stranieri che ogni anno con i primi caldi raggiungono l’Italia, soprattutto dall’Europa dell’Est, sono 370.000. Una fetta enorme, che copre oltre un quarto delle giornate di lavoro necessarie alle nostre 220.000 aziende agricole.

Ma a causa del coronavirus e delle frontiere chiuse, il rischio è che nessuno di questi lavoratori possa raggiungere il nostro Paese, lasciando i campi senza manodopera e le colture a marcire. Non è solo una questione di business, ma l’inizio potenziale di un’emergenza che molti temono possa da un lato influenzare l’arrivo di frutta e verdura sugli scaffali dei supermercati e dall’altro far aumentare i prezzi, nonostante per gli esperti si tratti di una possibilità remota.

I supermercati potrebbero “assorbire” le quote destinate ai ristoranti

«La necessità di manodopera cresce con l’aumentare delle temperature e le specie che vanno a raccolta» spiega il responsabile economico della Coldiretti, Paolo Bazzana. «L’estate sarà il vero banco di prova, ma ci sono aree in cui la crisi è già concreta». Come Fasano (Brindisi), dove Floriana Fanizza è titolare di un’azienda agricola che produce olio e ortaggi. «Le prime problematiche» racconta «sono scoppiate già agli inizi di marzo. A causa anche della mancanza di dispositivi di protezione, parte dei nostri dipendenti non ha potuto lavorare: un intero campo di sedano e un altro di cime di rapa sono andati persi».


Francesco Daveri, docente di Macroeconomia all’università Bocconi di Milano tranquillizza: «La crisi è di natura occupazionale ma, se doverosamente affrontata, non coinvolgerà anche il consumatore». Bisogna precisare che il settore agroalimentare esporta per ben 44,6 miliardi: considerando che è proprio l’export a essere bloccato, continua Daveri, «l’emergenza investirà pesantemente i fatturati ma potrebbe non influire sulla presenza dei prodotti in negozi e supermenrcati».

Della stessa opinione Bazzana di Coldiretti, secondo cui ad incidere sarà anche la data di riapertura dei ristoranti: «Il 36% dei prodotti è destinato a consumi extradomestici: ristoranti, bar e mense. È inevitabile che, se queste attività non dovessero riaprire a stretto giro, anche la loro quota verrà destinata ai supermercati». Insomma, conclude Daveri, «a oggi non c’è rischio che la carenza di frutta e verdura possa far aumentare il loro costo per il consumatore».

Occorre regolarizzare i lavoratori in nero

Resta da risolvere il problema occupazionale. «Per garantire la disponibilità di alimenti e sopperire alla mancanza di manodopera, il decreto “Cura Italia” permette il lavoro nei campi dei parenti fino al sesto grado, purché la prestazione sia gratuita. Ma si tratta di una soluzione tampone non sufficiente» continua Bazzana. Ora l’esecutivo sta lavorando alla stabilizzazione di circa 200.000 irregolari, stranieri e non, privilegiando chi già gode di rapporti di lavoro esistenti (per quanto non contrattualizzati). Una soluzione, però, che non convince tutte le associazioni di categoria: «Al settore servono lavoratori stagionali» osserva Bazzana. «Se dessimo un contratto stabile a una parte dei dipendenti, poi non avremmo lavoro da offrire negli altri 8 mesi dell’anno».

A mettere tutti d’accordo sarebbero i “corridoi verdi”, ai quali sta lavorando il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova in sinergia con i governi rumeno e polacco: garantire frontiere aperte, solo per il periodo necessario, a chi ha un regolare contratto. Naturalmente rispettando distanziamento e altre normative di sicurezza. Una soluzione che, tra l’altro, favorirebbe l’emersione del lavoro nero e migliorerebbe le condizioni dei lavoratori.

Nutre questa speranza Julian, 40 anni, che vive a pochi chilometri da Bucarest. Da 5 anni ogni aprile viene in Italia per lavorare nella provincia di Latina. «Stiamo cercando di capire cosa succede» racconta. «Sono in continuo contatto con il mio datore di lavoro italiano, ma mi dice che la situazione è ancora poco chiara». Julian non può che aspettare: «Noi qui viviamo bene, ma lo stipendio di quei mesi è molto più alto di quanto potrei guadagnare in Romania. Con 3 figli e una moglie da mantenere, per me quel lavoro è vitale».

Altra soluzione sul tavolo è la possibile reintroduzione e sburocratizzazione dei voucher, che consentirebbero un rapporto di lavoro snello e temporaneo favorendo l’incrocio tra una domanda di manodopera destinata a crescere con l’arrivo delle raccolte più importanti (pesche, albicocche e uva) e un’offerta rappresentata da quella fetta di persone che hanno momentaneamente perso il lavoro a causa dell’epidemia.

Chi è temporaneamente disoccupato si mette a disposizione

Non sono pochi coloro che si stanno offrendo per lavorare nei campi, grazie anche a portali – uno di questi, Jobincountry, offerto direttamente dalla Coldiretti – che consentono di incrociare domande e offerte di lavoro. Giacomo ha 37 anni e vive a Novara: «Negli ultimi anni ho fatto un po’ di tutto, dall’adattatore di dialoghi per la televisione fino all’addetto agli archivi nelle biblioteche. Avevo un contratto a tempo che è scaduto proprio nel pieno del lockdown, a marzo. Per questo ho segnalato il mio curriculum in vari portali». Finora, però, a parte qualche telefonata di rito, nessuno si è mostrato interessato.

È ancora l’imprenditore Giuseppe Grande a spiegare il motivo: «Molti, come me, stanno aspettando prima di capire se i lavoratori che già hanno esperienza nel settore possano rientrare dall’Est Europa. Io mi do ancora una settimana: solo dopo prenderò soluzioni alternative che inevitabilmente richiederanno l’assunzione di persone che partono da zero, o quasi».

Più fortuna ha avuto Riccardo, studente universitario di 25 anni, rientrato da Torino in Basilicata subito prima del lockdown: «Quando ho capito che non si sarebbe tornati presto all’università ho cominciato a cercare lavoro con degli amici: un’azienda di pomodori lucana ci ha assunto con piccoli contratti a tempo». Riccardo, che studia per diventare avvocato, oggi lavora in magazzino: «Non è stato facile ambientarmi, ma dopo poche settimane capisci come tu sia parte di una vera e propria catena di montaggio. Per quanto faticoso, comprendi l’importanza della “squadra” e quanto il tuo lavoro vada a incidere su quello degli altri». Un insegnamento che, conclude Riccardo, «mi porterò dietro anche in futuro».

Il problema della carenza di manodopera riguarda anche il resto d’Europa

Il problema della carenza di manodopera nei campi non riguarda solo l’Italia. In Gran Bretagna, per esempio, non ci sono braccianti che raccolgano patate e lamponi. In Germania rischiano di marcire gli asparagi bianchi, mentre in Spagna si teme per ciliegia, pesca e albicocca. Anche gli altri Paesi, dunque, stanno correndo ai ripari.

In Francia è stata attivata una piattaforma informatica per far incontrare domanda e offerta di lavoro, alla quale avrebbero aderito oltre 60.000 disoccupati. Berlino, invece, ha già firmato 3 protocolli d’intesa con Polonia, Bulgaria e Ucraina, riuscendo ad assicurarsi 80.000 lavoratori, divisi in 2 tranche, per i mesi di aprile e maggio. Il governo spagnolo, infine, sta varando un decreto che permetterà a disoccupati e immigrati di alleviare la mancanza di manodopera e sarà in vigore fino al 30 giugno.

Per mantenere le distanze, le file di semina e raccolta vengono alternate.