«Vorrei stringere la mano di mia figlia. E uscire, perché quando potevo passeggiare in città o addirittura andare a visitare una mostra, il mio cervello lavorava, mi sentivo viva». Angela, 89 anni, un cuore di ferro e un sorriso contagioso, ha trascorso gli ultimi mesi «sospesa» nella Rsa Domus Patrizia di Milano. Quel «sospesa» lo ripete più volte durante la nostra chiacchierata, come a sottolineare che, a questa età, sentire il tempo che scappa via fa davvero male.
In lockdown da marzo
Fase 1, fase 2, fase 3… Nelle residenze sanitarie assistenziali sono parole più vuote che mai. Perché dai primi di marzo, quando è scattato il lockdown, le porte non si sono quasi più aperte. Nei mesi passati queste strutture hanno contato e pianto tante, troppe, vittime. Sono finite al centro delle polemiche e poi sono state quasi dimenticate. La Domus Patrizia di Milano è unʼisola felice: ha fatto storia con la scelta del personale di autoisolarsi durante le settimane più critiche e infatti ha registrato il lusinghiero “zero” nella casella dei contagi. Ma il ritorno alla normalità, qui come altrove, non è mai cominciato.
«Le mie giornate sono diventate tutte uguali: qualche libro, la tv. Per fortuna ho scoperto un canale dedicato al teatro e allʼopera, ma intanto sogno di poter ancora vedere uno spettacolo vero»
«Ho vissuto durante la guerra, ho visto la mia Sicilia distrutta dal terremoto. So che tanti eventi incombono sullʼuomo ma non lo schiacciano mai, anzi lo rendono più forte e più vicino ai suoi simili, infatti qui ci siamo uniti tantissimo. Eppure mi manca la quotidianità di prima» sussurra Angela, una vita in classe come insegnante di latino e greco. «Dieci anni fa ho avuto un ictus e da allora mi muovo sulla carrozzella, ma nulla mi ha fermata. Solo il Covid. Le mie giornate sono diventate tutte uguali: qualche libro, la televisione. Per fortuna ho scoperto un canale dedicato al teatro e allʼopera, ma intanto sogno gli spettacoli veri e le mostre a Palazzo Reale: i quadri, i miei occhi attenti sul palco a seguire una commedia… Prima erano il mio appuntamento settimanale, la mia gioia, ora il mondo è sospeso e noi qui, fermi ad aspettare. Ma sa, noi non abbiamo più tanto tempo. Mi aiuta la fede: ho chiesto agli operatori di portarci le ostie consacrate per prendere la Comunione ogni domenica. Sono stati bravissimi: hanno esaudito questo desiderio speciale».
Troppo spesso i sogni di questi anziani restano tali
Se per tutti noi i mesi di lockdown sono stati duri, per loro questa “prigionia” forzata che dura ormai da quasi 6 mesi, 200 giorni circa nel momento in cui scriviamo, è uno scoglio insormontabile, una fatica disumana che giorno dopo giorno li sfianca, li deprime e li fa spegnere per mancanza di stimoli.
Lo sa bene Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capodarco e autore dell’ebook Anziani deportati (su www.redattoresociale.it). «La pandemia ha evidenziato le fragilità del sistema, che va ripensato» racconta il sacerdote. «È vero, stiamo salvando lʼesistenza di questi nonni, ma a che prezzo? Li proteggiamo dal contagio, però per farlo li rinchiudiamo in uno spazio senza emozioni e socialità. Ovvero senza vita».
Don Vinicio Albanesi è convinto che questa emergenza sanitaria debba aiutarci a cambiare il modo di assistere e accudire le persone più deboli. «Dimentichiamo queste strutture, troppo simili a ospedali, e riconvertiamole. Bisogna trasformarle in tanti luoghi più piccoli, che accolgano al massimo 15 persone e che assomiglino più a case e appartamenti, con unʼatmosfera familiare, porte sempre aperte ai parenti, ospiti raggruppati a seconda delle diverse esigenze e personale aggiornato e stabile. E se gli enti pubblici non sono in grado di crearle, diamo il compito a privati con unʼanima no profit. Ai parenti chiediamo di vigilare sul rispetto delle regole».
Proprio la socialità resta un tasto dolente
«A marzo ho compiuto gli anni da sola» ricorda Angela. «La struttura ha 5 piani e fino a giugno ognuno è rimasto confinato nel suo: niente pranzi al ristorante, niente palestra, parrucchiere o messa, zero tombole o chiacchiere con le amiche storiche». Ora le cose sono un poʼ migliorate: Angela può mangiare insieme agli altri ospiti al ristorante. «Ma molte attività sono sospese o più rare, come le visite dei nostri cari. Ho rivisto mia figlia a giugno. Mi sono sentita svuotata perché non potevo abbracciarla e non riuscivo a dimostrarle tutto il bene che avevo dentro. Ancora adesso ci incontriamo in giardino e se mi porta qualcosa non può darmelo direttamente. Quanto è triste non toccarsi e salutarsi solo facendo ciao ciao con la mano».
Le visite, infatti, sono contingentate e avvengono o in spazi aperti o in stanze con appositi vetri o divisori. Tante norme costellano le giornate. «In estate mi hanno ricoverata in ospedale per un problema alla cistifellea» spiega Angela. «Al ritorno qui sono stata in isolamento per 14 giorni. Però ho superato anche questa. Non posso essere pessimista: ho 4 nipoti, 2 sono ormai grandi e sistemati ma gli altri voglio vederli crescere e diventare belle persone».
Storie dal lockdown
Le parole di Angela si interrompono. In camera arriva Gaetano Siciliano, 45 anni, operatore sociosanitario della struttura. Ormai si conoscono alla perfezione, da quando Gaetano e i suoi colleghi si sono “chiusi” dentro la Rsa. Nelle settimane più dure dellʼepidemia personale sanitario e ospiti hanno vissuto insieme 24 ore al giorno. «Ho accettato subito, senza pensarci un istante, e lo rifarei altre mille volte» spiega Gaetano con un sorriso. «Il 31 marzo ho preparato una valigia. Ci ho messo dentro solo i vestiti, tutto il mio mondo restava fuori». Un universo fatto di 3 figli, ormai grandi. Ma lʼetà non conta se non sai bene quando li riabbraccerai. «Li chiamavo alla fine del turno: le loro voci diventavano benzina per me, perché la stanchezza si sentiva. Sono stati 40 giorni intensi. Dove dormivamo? Abbiamo riadattato la palestra o la sala parrucchiere, che non si usavano in quel periodo, nel dormitorio del personale. A volte mi sentivo in una specie di campeggio o al militare. Poi gli ospiti della struttura mi riportavano alla realtà. Ecco, in quelle settimane ci siamo trasformati in una famiglia: le remore e le formalità hanno lasciato il posto alle chiacchiere senza fretta, agli sguardi intensi e caldi dietro le mascherine. Queste persone non possono solo aspettare la fine, devono avere un senso nelle loro giornate».
Rsa: ora si vorrebbe riaprire
Una luce si riaccende in questi giorni per gli ospiti delle Rsa. Lʼultimo report appena firmato dall’Istituto superiore di sanità (Iss) parla della possibilità che le porte delle residenze per anziani tornino a riaprirsi. Il rapporto ripercorre le criticità degli ultimi mesi e i divieti stringenti che sono stati applicati, per poi sottolineare che gli ospiti delle strutture possono riprendere attività, passatempi e visite.
«Il benessere delle persone fragili, di coloro che vivono lontani dai nuclei familiari perché non autosufficienti, è intimamente collegato anche alla loro sfera emotiva» nota Paolo DʼAncona, ricercatore dell’Iss e coordinatore del team di esperti che ha redatto lo studio. «La possibilità di poter incontrare i propri cari e di alimentare una vita di relazione influisce sul loro stato di salute e perciò, dopo gli sforzi fatti per frenare i contagi, è necessario imboccare una strada che riporti gradualmente alla normalità». La speranza è che queste indicazioni si trasformino presto in realtà.
Covid e Rsa: i numeri del fenomeno
1.356
sono le Rsa italiane.
97.520
sono gli ospiti, con una media di 72 per ogni struttura.
3.722
sono i decessi accertati per Covid da febbraio a maggio.
21,1%
è la percentuale delle residenze che ha avuti contagi nel personale.
(Fonte: Istituto superiore di sanità)