«È un’emergenza parallela a quella sanitaria, anche se invisibile». Così Chiara Saraceno, tra le sociologhe più autorevoli in Italia, definisce un dramma silenzioso: quello che stanno vivendo i bambini fragili, già in condizione di marginalità e ora gravemente colpiti dalla chiusura delle aule e dall’isolamento casalingo. “Gli ultimi della scuola”, li ha chiamati la studiosa su la Repubblica. Ragazzi a cui le lezioni online non arrivano, perché sprovvisti di un collegamento o di un computer. Minori costretti a vivere in case di pochi metri quadrati, con familiari che hanno perso il lavoro. Alunni per i quali la mensa rappresentava l’unico pasto quotidiano.
Chiara Saraceno parla di quei bambini che vanno a ingrossare le fila di chi già vive in povertà assoluta, un esercito triplicato negli ultimi 10 anni: 1.260.000 “soldati” che fatichiamo a vedere, mentre nelle case infuriano petizioni per i pennarelli nei supermercati (poi riammessi tra i beni primari) e litigi sulle chat con i padroni di cani, rei di aver avuto il lasciapassare per uscire mentre i figli no (poi concesso «rispettando le norme, per un motivo preciso e previsto dai decreti»).
Per molti bambini il pericolo è proprio tra le mura domestiche
«A un mese dal lockdown, mi sarei aspettata di più dalle ministre Lucia Azzolina ed Elena Bonetti, non tanto in quanto donne ma perché alla guida di istituzioni fondamentali per i minori: la scuola e la famiglia» dice Saraceno, portavoce della rete a tutela dei diritti dei bambini Alleanza per l’infanzia. Anche lei, come tutti, è chiusa in casa dalla quarantena. «Sono una nonna ultra 75enne a cui è proibito avere contatti, do una mano come posso: parlo via Skype con mia nipote, la aiuto con i compiti, facciamo ricerche. Cerco di sollevare i suoi genitori, così hanno tempo di lavorare. Chiaramente, questa è una situazione di privilegio.
Poi si passa alle famiglie dove esiste una sola connessione per tutti, a quelle in cui non c’è affatto, ad altre in cui si abbonda di problematiche serie: violenze subite o assitite, difficoltà di integrazione, solitudine, disabilità». Anche grazie alle pressioni delle associazioni «che stanno facendo fronte nonostante l’impossibilità di contatti diretti con chi devono assistere» precisa Saraceno, il governo sembra aver scoperto il dramma della povertà resa ancora più cruda dal coronavirus. Ed è corso ai ripari: dopo i buoni baby sitter («ma quale genitore rischia di far entrare una persona in casa?» si chiede la sociologa) e il rifornimento di tablet e connessioni per le scuole («tardivi»), ha messo a disposizione 400 milioni di euro per buoni spesa che saranno gestiti dai Comuni, attraverso il terzo settore. E si prepara a varare anche un Reddito di emergenza che aiuterà 3 milioni di disoccupati, precari o lavoratori in nero.
«Dobbiamo fare in modo che questo momento di black-out non diventi un ulteriore fattore di disuguaglianza. Pensiamo già ora al “dopo”, ma senza usare la naturale resilienza dei bambini come alibi per dimenticarci quanto hanno sofferto»
La situazione economica di una famiglia può precipitare velocemente
«L’impegno principale, adesso, è far sì che questo momento di black-out non diventi un ulteriore fattore di disuguaglianza» interviene Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children. «I nostri operatori hanno già raggiunto 20.000 persone vulnerabili, famiglie messe ancora più in ginocchio dalla crisi e con bisogni in evoluzione: penso alla mamma di un quartiere periferico torinese che dopo aver ricevuto una dote educativa per i figli ci ha chiesto aiuto per i beni alimentari. A testimonianza che in poco tempo la situazione economica delle famiglie può precipitare. Ma oltre a intervenire sull’immediato, stiamo pensando alla fase post-isolamento. Dovremo rimettere i bambini al centro dell’attezione e non usare la loro naturale resilienza come un alibi per dimenticarci quanto hanno sofferto. Chi già era indietro rischia di rimanere ancora più indietro».
È un errore considerare bambini e ragazzi soltanto oggetti di assistenza
Raffaela Milano tocca un tema di discussione tra educatori e famiglie in questi giorni, che occupa anche accurate riflessioni sui giornali stranieri (il New York Times lo fa con la newsletter “Parenting”): i nostri figli sono davvero in grado di resistere a tutto, anche se non vivono in condizioni di fragilità? Come usciranno da questi mesi di isolamento e di paure mutuate dagli adulti? «Nelle grandi crisi, come sono stati i terremoti dell’Aquila e di Amatrice, possiamo testimoniare che i minori hanno avuto forza e capacità di ricominciare» dice Milano. «L’errore, davanti a simili emergenze, è considerare bambini e ragazzi soltanto oggetti di assistenza, condannandoli alla passività: l’aiuto migliore è coinvolgerli e fornire una leva per dare un senso alle giornate. Come fanno per esempio i 400 giovani del nostro movimento “Sottosopra”, impegnandosi sia per aiutare i coetanei senza connessione sia per supportare i docenti disorientati dalla didattica a distanza».