I contagi sono in crescita, ma il ricorso alle terapie intensive resta limitato. Questa è la prima differenza rispetto ai numeri di maggio, quando il numero di positivi al coronavirus era pari a quello degli ultimi giorni: 1.365 il 30 agosto, come non accadeva dal 12 maggio. All’epoca, però, l’Italia era in lockdown, uno scenario che ora si tenta di scongiurare. Il ministero della Salute ha chiesto al microbiologo Andrea Crisanti, che ha gestito l’emergenza Covid in Veneto ed è convinto sostenitore della necessità di aumentare il numero di tamponi, di mettere a punto un piano nazionale di sorveglianza sulla diffusione del coronavirus. Ora è al vaglio del Comitato Tecnico Scientifico: prevede di aumentare il numero di tamponi dagli attuali 75/90.000 a 300.000.
Ma non tutti gli esperti sono d’accordo: «In questo modo in sei mesi si finirà con il tamponare tutta l’Italia e non ha senso: a parte il fatto che il test ha una validità temporale limitata, ma se si trovassero tutti positivi, cosa si dovrebbe fare? Chiudere tutto, dalle scuole alle aziende?» ribatte Matteo Bassetti, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive del San Martino di Genova. «Con il virus occorre conviverci in modo responsabile, non esserne terrorizzati. Altra cosa è invece effettuare tamponi in caso di soggetti sintomatici, per circoscrivere eventuali nuovi focolai». Su un punto, però, gli esperti sono concordi: la situazione oggi, nonostante i numeri dei contagi siano pari a quelli di maggio, è ben diversa.
Contagi in aumento, perché?
Il presidente francese Emmauel Macron non ha escluso un lockdown di fronte alla crescita del numero di contagi (circa 5.500 al giorno nelle ultime ore), ma il timore di nuove chiusure preoccupa anche in Italia. «In Francia i numeri sono più alti semplicemente perché si fa il triplo dei tamponi. In realtà occorrerebbe guardare la percentuale di contagi rispetto ai tamponi eseguiti: la situazione è molto simile in Francia, Germania e anche in Italia, pari a circa 1,5-2%. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno significa che ogni 100 persone sottoposte a tampone, 98 sono negative» spiega Bassetti. Le condizioni, poi, sono molto diverse rispetto alla scorsa primavera: «A differenza di marzo, aprile e maggio, quando si vedeva solo la punta dell’iceberg, oggi la situazione è trasparente: si fanno più controlli, non solo a chi presenta i primi sintomi (come tosse e febbre), ma anche a chi deve fare interventi chirurgici di routine, alle donne che eseguono mammografie o partoriscono. Anche per quanto riguarda le terapie intensive, oggi si contano 80 casi, a maggio si era arrivati a 4.200, ma tra coloro che adesso sono in rianimazione molti non sono pazienti Covid» spiega Bassetti.
Positivi o malati Covid?
Un conto è essere postivi, un conto malati. «Spesso sono persone che arrivano con problemi renali, cardiaci o per polmoniti da pneumococco. Sono sottoposti a tampone e risultano positivi, ma non sono pazienti Covid: un conto è essere positivi al virus SarsCov2, magari asintomatici, un conto è aver contratto la malattia Covid. L’allarmismo è ingiustificato» chiarisce l’infettivologo. A maggio erano sottoposti a tampone soprattutto coloro che presentavano sintomi gravi (mancavano anche reagenti per fare più controlli), tali da rendere necessario un ricovero. È cambiata anche l’età media dei positivi: non più soprattutto anziani, spesso con patologie pregresse, ma molti giovani per lo più asintomatici o con pochi sintomi, spesso di ritorno dalle vacanze o da frequentazioni a rischio (la cosiddetta “movida”).
I contagi di oggi 15-20 volte inferiori
Come spiegato da Andrea Crisanti sul Corriere della Sera, il virus non è mutato né è diventato «più buono». Piuttosto i dati della scorsa primavera erano sottostimati, come confermerebbe il risultato dell’indagine sierologica dell’Istat: emerge che «i casi di Covid-19 in Italia sono stati complessivamente un milione e 482 mila, cifra ben superiore al numero di casi accertati (265 mila). Poiché circa il 70% dei casi accertati con tampone è stato registrato nel periodo cha va dal 22 febbraio al 3 aprile, si può calcolare che durante quei 40 giorni in Italia ci siano stati circa un milione e 400 mila casi di infezione che corrispondono a 26 mila casi al giorno» spiega il microbiologo, mentre «i casi di questi giorni sono circa dalle 15 alle 20 volte inferiori a quelli delle prime settimane della pandemia, calcolati tenendo conto del contributo degli asintomatici e dei casi lievi». A ciò contribuisce anche una maggiore prudenza da parte della popolazione anziana, oltre a una diversa risposta delle strutture sanitarie.
Aumentare i tamponi: sì o no?
Oggi c’è una maggiore capacità di fare screening e attività di contact tracing, dunque non solo di effettuare controlli (tramite postazioni di drive in pressoché tutti gli ospedali), ma anche di tracciamento dei contatti, ai quali si risale per identificare e circoscrivere possibili focolai. Proprio sul numero di tamponi, però, non c’è unanimità tra gli esperti. C’è chi, come Cristanti, ritiene che si debbano aumentare fino a 300 mila al giorno per evitare di tornare a una situazione di possibile difficoltà o collasso delle strutture sanitarie. A creare la situazione di emergenza della scorsa primavera, infatti, è stata la mancanza di terapie intensive, tanto da dover far ricorso a strutture come ospedali da campo militari. Non la pensa così Bassetti: «Nel report del 26 agosto il Center for Disease Control di Atlanta (CDC) chiarisce che il tampone non andrebbe fatto agli asintomatici né ai contatti di casi certi. Non c’è alcuna esigenza di testare gli asintomatici, perché la carica virale è molto più bassa. Al ritmo di 300mila al giorno, in 6 mesi avremmo testato l’intera popolazione italiana. Non serve, sia perché l’esito potrebbe mutare nell’arco di pochi giorni o ore, in caso di contatto con un infetto, sia perché pone di fronte a un dilemma: se fossimo tutti positivi, anche gli asintomatici, dovremmo chiudere tutto? Non ha senso: con questo virus si deve convivere, non esserne terrorizzati» dice Bassetti, che aggiunge: «Il modello di Vo’ Euganeo (messo a punto da Crisanti per il focolaio nel comune veneto, NdR) non è estendibile all’intero Paese. In quel caso si è isolato un paese di 3mila anime, meno di coloro che lavorano all’ospedale San Martino. L’Italia non è Vo’. Senza contare le ricadute in termini di costi immediati per eseguire i tamponi e di lungo periodo su un’economia già in ginocchio».
Chi deve essere controllato?
Ma allora oggi chi dovrebbe essere controllato? «Certamente nel caso di persone sintomatiche, dove è necessario un isolamento fino a completa guarigione. Il tampone deve essere una potenza di fuoco pronta a intercettare nuovi focolai, ma non ha senso tracciare in modo indiscriminato» sostiene l’infettivologo. E a scuola? «Se volessimo essere sicuri che nessuno abbia il virus dovremmo eseguire i tamponi su tutti, tutti i giorni: è impossibile. Stupisce che si chiedano test quando fino a pochi mesi fa l’Italia era il paese in cui solo il 75% faceva il vaccino contro il morbillo e molti meno contro lo pneumococco» dice Bassetti.
Nuovo lockdown: è un rischio concreto?
«Non voglio pensare neppure per un momento all’ipotesi di un nuovo blocco totale e attenzione a parlare di lockdown all’estero. In Germania, per esempio, si è solo limitato l’accesso a ristoranti, discoteche o scuole in una regione. Non si deve commettere l’errore di vivere pensando di essere ancora nella condizione di marzo/aprile. Peraltro solo in Cina e in Italia ci sono stati lockdown così rigidi e prolungati, che forse si potevano evitare: secondo gli stessi esperti del Comitato Tecnico Scientifico la chiusura totale aveva senso in alcune aree, come Lombarda, Liguria, Piemonte, ma non dove non c’erano contagi. Si è scelta la misura estrema di un lockdown totale per scongiurare una crisi sanitaria al centro-sud, ma attenzione a non affamare un intero Paese» conclude Bassetti.