Con oltre 14 milioni di contagi, il mondo vive la fase più critica della pandemia: dagli Stati Uniti all’America Latina, dall’India all’Australia, fino ai Balcani. Il perché lo ha spiegato l’Oms: troppi Stati – Usa e Brasile in testa – non hanno adottato misure sufficienti e ora sono in emergenza.
E l’Italia? Secondo il Centro europeo di prevenzione e controllo malattie, siamo tra i Paesi con gli indici più bassi, con 4,6 casi ogni 100.000 abitanti nelle ultime 2 settimane (contro i quasi 60 della Svezia). Ma si registrano nuovi focolai – da Jesolo a Pozzallo – perlopiù legati ad arrivi o rientri dall’estero, mentre cresce la diffusione del virus in Spagna e Romania. Ora che le frontiere sono aperte, rischiamo dunque il “contagio di ritorno”?
Gli ingressi in aereo, treno e nave sono controllati
«L’epidemiologia ci insegna che, finché un virus resta in circolazione, i rischi non si possono azzerare. Abbiamo però gli strumenti per contenerli» spiega Paolo Bonanni, epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’università di Firenze. «Le misure adottate da noi, come la quarantena di 2 settimane per chi arriva dai Paesi extraeuropei e lo stop agli ingressi dalle aree più problematiche (tra cui Bangladesh, Brasile, Bosnia e Serbia, ndr), sono un ottimo filtro. Più complesso il discorso sugli spostamenti in Europa, dato che i confini sono aperti».
Chi arriva in treno, aereo o nave da qualunque Stato straniero (inclusi quelli europei) deve consegnare alla compagnia di trasporto un’autocertificazione in cui dichiara gli spostamenti degli ultimi 14 giorni, ma per chi viaggia in auto non ci sono controlli sistematici ai confini. E c’è il tema dei migranti via mare. «Servono misure di sorveglianza rigide su chi arriva e su chi è in isolamento, con un sistema che preveda tamponi e quarantena al momento dello sbarco» spiega l’esperto. La capacità di prevenire una nuova epidemia dipenderà da quanto sarà tempestivo ed efficiente il sistema di sorveglianza, che deve essere in grado di bloccare sul nascere i focolai sia locali sia importati. Come? Tracciando, testando e isolando.
Per circoscrivere i nuovi casi sono fondamentali i “tracker”
I dati in altalena dei contagi italiani, che salgono e scendono man mano che i nuovi focolai vengono individuati e poi spenti, dicono che «siamo nella direzione giusta» spiega Bonanni. «Quella col virus è una guerra di posizione, per vincerla bisogna puntare sul tracciamento. Le figure chiave sono i “tracker”, operatori sanitari che per ogni focolaio si attivano per raggiungere tutte le persone che sono venute in contatto con il contagiato, che sia italiano o straniero, e le seguono telefonicamente per il periodo di isolamento. In Europa a percorrere questa strada è stata l’Irlanda, con un buon successo. In Italia questa attività è stata avviata con la fase 2».
Il caso del quartiere Garbatella a Roma, dove in 5 giorni i tracciatori della Asl hanno “spento la miccia” in un palazzo, dimostra che si può agire in poco tempo. Il ministero della Salute fa sapere che, tra gli oltre 29.000 medici, infermieri e professionisti sanitari assunti dall’inizio dell’epidemia, «la gran parte è stata assegnata ai dipartimenti di prevenzione territoriali che si occupano del tracciamento».
La soglia fissata è di un tracker ogni 10.000 abitanti, ma per gli esperti ne servono di più, e molto dipenderà da come le regioni organizzeranno il personale delle Asl. Ma per contrastare l’ondata di ritorno contribuiscono in maniera decisiva i comportamenti dei singoli: «Portare le mascherine – anche Ffp2 nei luoghi più “esposti” come gli aeroporti – e lavare attentamente le mani sono la nostra arma più efficace».