L’Italia è in affanno, a Parigi è scattato il piano d’emergenza, Madrid e New York si tingono di zone rosse: la pandemia continua a travolgerci e forse non ci siamo mai sentiti così soli e impauriti. «Eppure non siamo mai stati così dipendenti l’uno dall’altro» esordisce Christophe André, psichiatra e psicologo delle emozioni, appena arrivato in libreria con Quei legami che ci fanno vivere. Elogio dell’interdipendenza (Corbaccio editore): un saggio che, letto alla luce di quanto sta accadendo, può dirci molto su come affrontare una “normalità” fatta di confini ristretti, isolamento e rinunce. «Il virus, un virus planetario che in poche settimane è arrivato dalla Cina in Italia, ci mostra che mai come in questo momento da ogni nostro gesto e e da ogni decisione, anche quella dei singoli individui, dipende il destino degli altri. Nonostante il distanziamento obbligato ci faccia credere che le nostre vite corrano separate, oggi ciascuno di noi, con il suo comportamento quotidiano, può contribuire a bloccare la diffusione del virus».
Facciamo un passo indietro. Nel libro si legge che dall’interdipendenza tra noi e gli altri deriva il nostro benessere. Perché è così importante? «Perché è connaturata all’essere umano, è alla base dell’evoluzione della nostra specie: l’uomo è arrivato nel mondo indifeso, senza corazze o artigli, l’unico modo che ha avuto per proteggersi è stato unirsi ai suoi simili imparando a contare gli uni sugli altri. Abbiamo bisogno di dare e ricevere esattamente come abbiamo bisogno di respirare. Le ricerche nel campo delle neuroscienze cognitive mostrano che gli uomini sembrano programmati per costruire legami e decenni di studi hanno evidenziato quanto le relazioni positive influiscano sul benessere mentale e la salute delle persone».
Ma oggi il mondo sembra andare da un’altra parte… «Sì, ha ragione, è proprio così. Il mondo moderno sembra aver dimenticato la necessità dell’interdipendenza. La società degli ultimi decenni ha dato sempre più valore ai singoli. Le faccio un esempio: negli Stati Uniti da qualche anno si è visto che i nomi rari, o addirittura unici al mondo, sono sempre più utilizzati. E alcuni ricercatori hanno misurato un aumento dell’uso di parole che fanno riferimento a valori individualisti come “io”, “sé”, “unico”, rispetto a termini come “insieme” e “appartenenza”. Se ci pensiamo, anche la psicologia moderna ha contribuito a spingere le persone a chiudersi nella loro autonomia. Per anni non abbiamo sentito parlare d’altro che di autostima e di quanto sia importante pensare alla propria realizzazione personale. Col tempo, però, si è arrivati a credere che possiamo fare tutto da soli. Il potere economico e quello tecnologico ci hanno dato l’illusione di proteggerci da ogni pericolo, e ci hanno fatto dimenticare il nostro profondo bisogno dell’altro».
E poi è arrivato il Covid… «Ci ha fatto uscire bruscamente dalla bolla delle nostre false sicurezze. Improvvisamente, nel giro di poche settimane, ci siamo resi conto che da soli sarà difficile superare le prove più dure. Una consapevolezza che riprende forza in questi giorni, con l’arrivo della seconda ondata di contagi. L’allontanamento sociale, la “reclusione” forzata ci aprono gli occhi sul fatto che a volte gli altri ci infastidiscono ma sono essenziali per la nostra sopravvivenza, e noi lo siamo per loro. Lo vedo anche qui, in Francia: la quasi totalità delle persone ha compreso che dai propri atteggiamenti dipende il destino della comunità, e rispetta le regole, per altruismo e per obbedienza. Siamo una specie intelligente, stiamo capendo di essere fragili».
Nel libro si parla molto dell’importanza della vicinanza fisica non solo per il benessere mentale ma anche per la salute delle persone. Come si concilia tutto questo con le necessarie regole di distanziamento sociale? «Fa male non poter baciare chi incontri o vedere gli amici. Ma queste restrizioni non sono punizioni. Ancora troppi, in Francia e forse anche in Italia, le vivono così. La parola punizione dovrebbe essere sostituita dentro di noi da due termini fondamentali in questo periodo: altruismo e orgoglio. Se ci proietteremo sull’importanza e sul valore di questi gesti, saremo fieri di noi e questo ci farà stare subito meglio: anche il fatto di aiutare qualcuno attiva nella nostra psiche un meccanismo che procura un senso di benessere. La scienza ha dato un nome a questo meccanismo: “helper high”, euforia di chi aiuta il prossimo».
In concreto cosa possiamo fare per uscire dall’isolamento e controllare la paura? «Possiamo provare a rendere più umane le barriere che ci separano dagli altri. Non dovremmo indossare la maschera “tristemente”, magari tenendo lo sguardo basso e sfuggente, come ho visto fare a molti, ma compensarla cercando di sorridere con gli occhi, scambiando qualche parola in più anche con gli sconosciuti. Possiamo ammorbidire anche il gesto di allontanarsi se incrociamo qualcuno sul marciapiede, aggiungendo uno sguardo o un sorriso. E per combattere la solitudine possiamo chiamare chi amiamo, fare progetti realizzabili, come una passeggiata, prenderci cura di noi stessi e dare spazio alle azioni, alle relazioni e ai pensieri che alimentano dentro di noi un senso di fiducia. La paura va ascoltata e trasformata in cautela, non in panico. Non dobbiamo minimizzare il pericolo, ma trovare risorse per affrontarlo al meglio».
Non è semplice. «Per stare bene possiamo farci guidare un po’ di più dalle emozioni positive. Non mentono mai, tanto che in psicologia sono considerate una “prova”. E se le ascoltiamo, ci spingeranno verso il nostro desiderio più profondo, quello di vivere con gli altri e di mantenerci in contatto con la nostra comunità. Quando litighi o ti comporti male puoi continuare a dirti che hai ragione e che hai fatto bene, ma dentro di te non puoi soffocare quel senso di rabbia e di tristezza. Puoi mentire al tuo cervello ma non alle tue emozioni».
Pensa che la pandemia ci renderà migliori? «Me lo auguro, ma nel frattempo avremo imparato due cose. La prima è che la prossima pandemia, se e quando arriverà, ci troverà più preparati. La seconda è che sapremo essere orgogliosi e più umili, sapremo chiedere aiuto».
Quei legami che ci fanno vivere. Elogio dell’interdipendenza (Corbaccio editore), scritto da Christophe André, medico psichiatra all’ospedale Sainte-Anne a Parigi, e Rebecca Shankland, psicologa e docente all’Université Grenoble-Alpes, è un saggio che ripercorre l’importanza delle relazioni nella storia degli esseri umani e in quella di ognuno di noi, dalla nascita alla maturità.
Più forti dopo il lockdown
Si è detto spesso che il lockdown ha avuto un effetto negativo sulla nostra psiche. Ma se questo è vero per chi già soffriva di disturbi, per altri non è stato così. «Uno studio dell’università di Francoforte su 523 volontari in buona salute mostra che l’84% ha migliorato o mantenuto il proprio stato durante il lockdown» spiega Giovanni De Girolamo, direttore dell’Uo di Psichiatria epidemiologica e valutativa al Fatebenefratelli di Brescia. Percepirsi parte di un destino comune ha contato molto: «Ci si può sentire isolati ma non soli, e qui è innegabile il ruolo giocato dai mezzi di comunicazione» spiega il professor De Girolamo che è stato tra gli ospiti del Festival della Scienza medica di Bologna che si è tenuto online dal 2 al 17 ottobre.