«Presidente Conte, come me ci sono milioni di mamme disarmate che si devono dividere tra figli e lavoro. Questo è un momento storico senza precedenti, ma i bambini sono una priorità! Non trovando una soluzione a questo problema facciamo un passo indietro, ma tanto indietro. Sì, perché le donne devono rinunciare al lavoro per accudire i figli. Allora le chiedo: se già è difficile vivere lavorando, non lavorando come pensa potremo fare?».
Questa lettera, una delle tantissime di cui si è fatto portavoce Il cantiere delle donne, gruppo apartitico e multiprofessionale nato su Facebook, sintetizza bene il tema: nella fase 2 le donne rischiano di pagare il prezzo più alto sul lavoro. Non che la fase 1 per loro sia stata una passeggiata. L’Istat dice che due terzi delle lavoratrici, ovvero 6,4 milioni, hanno continuato a operare in settori strategici: dottoresse, infermiere, cassiere, addette alle pulizie, spesso faccia a faccia con il virus. Poi ci sono colf, badanti e babysitter a cui la paura del contagio ha spesso tolto il posto e, per finire, molte impiegate in pieno burn-out casalingo tra smart working d’emergenza e cura della famiglia. Con il rientro al lavoro, che coinvolge 4.400.000 persone al 72% uomini e registra la cassa integrazione per 1 dipendente su 2, arrivano anche altri pericoli.
Occorre ribilanciare i carichi familiari
Per capire dove rischiamo di finire, conviene ricordare dove ci siamo fermate. A febbraio eravamo un Paese che il World Economic Forum ha collocato al 76° posto su 153 per gender gap occupazionale e retributivo e avevamo un tasso di natalità tra i più bassi al mondo. Ma eravamo anche un Paese in cui, seppur timidamente, cominciava a farsi strada la consapevolezza che fosse cosa buona aumentare i congedi paternità e che, quando tante donne lavorano, crescono il fatturato delle aziende e il Pil. Il rischio contagio ha però chiuso le scuole e messo fuori uso i nonni, sfarinando equilibri di per sé già deboli.
«I bonus baby sitter e i congedi straordinari sono utilizzabili da pochi e per poco: lo Stato deve trovare in fretta soluzioni vere e strutturali» dice Ella Marciello, direttrice creativa dell’agenzia Ribelli digitali e coautrice del libro Smart working (Hoepli). «Sono molto preoccupata: sento tante che temono di dover lasciare il posto per accudire da un lato i figli e dall’altro i nonni, ora così fragili. Una scelta “obbligata” perché è il compagno che di norma guadagna di più e perché partono dal presupposto che la famiglia sia loro competenza». Oggi ci sono però anche donne che dicono: «Sono fortunata, perché lui mi aiuta in casa». Marciello mette in guardia: «Qui non si tratta di ricevere favori, ma di cambiare una mentalità patriarcale introiettata dalle donne stesse. Questa le obbliga ad assumersi un carico mentale e fisico sbilanciato nei confronti del partner e, sul lavoro, nei confronti di colleghi e superiori uomini. Urgono quindi nuove politiche sociali e occupazionali».
I capi devono cambiare mentalità
Esiste anche chi, pur non negando le tante ombre di questo periodo né i limiti dello smart working d’emergenza, vede opportunità. «Fino a ieri, anche nel settore pubblico dove le donne sono oltre il 50%, molte hanno rinunciato alla carriera perché erano costrette a chiedere più permessi e dicevano no alle trasferte. Erano, insomma, sotto lo stigma della scarsa disponibilità» spiega Monica Parrella, dirigente pubblica premiata come “Tecnovisionaria 2019 per la pubblica amministrazione”. «Ora che si è dimostrato, per esempio, che le riunioni si possono fare anche a distanza senza spostarsi da Roma a Milano, ci sono nuove chance per le donne».
Concorda Elena Barazzetta, ricercatrice del progetto Secondo welfare e autrice di Genitori al lavoro. Il lavoro dei genitori (Este edizioni), e aggiunge: «Noi donne dobbiamo abbandonare la tendenza al perfezionismo e ad avere tutto sotto controllo: se ho accanto mia figlia, magari non riesco a rispondere subito a una chiamata, ma questo non significa che non possa poi fare, e bene, quanto mi verrà richiesto. Le aziende stesse devono reinventarsi, perché lo smart working è un’innovazione organizzativa: va cambiato lo stile di leadership e vanno valorizzate le competenze e i risultati delle persone più che la reattività immediata a una richiesta».
Servono accordi molto chiari
Siamo di fronte alla necessità di un salto, anche culturale. «La crisi del 2008 ha bruciato molti posti e ha prodotto una schiera di autonomi e freelance con tutele ben diverse da quelle dei dipendenti» ricorda Simona Fontana, avvocato giuslavorista e fondatrice del progetto Mammachelavoro.it. «Ora con la crisi Covid-19 bisogna ridurre i rischi di licenziamento, ma anche strutturare bene lo smart working per non snaturarne le potenzialità. Non è una concessione fatta alle donne e non deve fare la fine del part time, che è quasi tutto al femminile e in 6 casi su 10 non volontario. La legge del 22 maggio 2017 n. 81 che ha introdotto il lavoro agile in Italia precisa molte cose: non va imposto ma deve essere frutto di un accordo tra dipendente e azienda che va a integrare il contratto individuale; non comporta riduzioni di stipendio; prevede che si lavori in alcuni momenti da remoto, ma altri in azienda; può essere a tempo determinato e rinnovabile o a tempo indeterminato. Bisogna mettere con chiarezza nero su bianco diritti e doveri di entrambe le parti. Meglio chiedere una consulenza a un esperto prima di firmare, perché i pericoli sono almeno 2: finire con il lavorare più di prima ed essere discriminate per la carriera rispetto a chi ha una presenza continua in ufficio».
La possibilità di smart working resta, comunque, un’opzione solo per alcune categorie di lavoratori. «Vero, ma non dimentichiamo che, quando una donna con famiglia perde il posto, spesso lo perdono insieme a lei altre donne, la babysitter e la colf per esempio. Siamo una catena e bisogna far sì che ogni anello resti bene saldo».
Un welfare aziendale più attento alle persone
«Molti dipendenti già nella fase 1 si sono trovati in situazioni difficili» dice Martina Giacchero, assistente sociale della piattaforma di welfare aziendale Jointly. «Penso per esempio a una donna di un’azienda nostra cliente: la badante della mamma aveva contratto il virus e noi l’abbiamo aiutata a trovare una persona che, in sicurezza, la sostituisse. Nella fase 2 occorre sviluppare sempre più forme di “smart caring”». L’attenzione alle persone, il “people care”, è il fulcro dell’analisi Welfare aziendale dopo Covid-19 presentata sul sito wewelfare.it.
Come spiega Giovanni Scansani, fondatore della società di consulenza Valore Welfare e coautore dello studio, «bisogna dare priorità ai servizi di maggior valore sociale: la sicurezza sul luogo di lavoro, l’assistenza sanitaria e il supporto psicologico, perché si torna in azienda tra mille incognite e paure. Non solo. Finora di norma chi guadagnava di più aveva più benefici dal welfare. Ora sarebbe bene pensare a formule che tengano conto della complessità dei carichi di cura familiari, dando sostegni più robusti ai dipendenti con figli, anziani o soggetti disabili in famiglia».