In Italia ogni 10 vittime donne ce ne sono 24 tra gli uomini. A riportarlo è la CNN, che riferisce come in Cina il rapporto è di 10 a 18, in Germania di 10 a 16 e in Francia di 10 a 14. Pur con le dovute differenze, dunque, si conferma un dato emerso fin dall’inizio della comparsa del coronavirus: le donne sono più “forti” contro il COVID-19. Mentre gli esperti si interrogano sui motivi (fumo, estrogeni, geni e stili di vita differenti), c’è chi ipotizza che le prime a rientrare al lavoro una volta finita l’emergenza potrebbero proprio essere le donne.
Uguale positività, diversa letalità
Uno dei primi studi sulle differenze tra uomini e donne colpiti dal Sars-Cov2 è stato condotto in Cina e indicava che il tasso di mortalità nel primo focolaio era del 2,8% per gli uomini e dell’1,7% per le donne. Numeri che, seppure con le debite differenze, hanno trovato conferme anche in altri paesi come la Spagna, dove per esempio i morti di sesso maschile sono il doppio di quelli femminili. Perché? «Sicuramente occorre distinguere tra letalità e casi di positività. In quest’ultimo caso va detto che si va verso una parificazione, perché i contagiati uomini rappresentano il 55%, mentre le donne sono il 45%. Se invece prendiamo in considerazione la letalità, in generale è del 13% negli uomini e del 7% nelle donne. Tuttavia le differenze sono diverse a seconda dell’età: ad esempio nella fascia più colpita (70-79 anni), la letalità è del 23% negli uomini e del 14% nelle donne. La spiegazione non è certa. Sicuramente si tratta di un fenomeno multifattoriale: potrebbero incidere la maggiore longevità delle donne, la minore incidenza di malattie cardiovascolari, il minor numero di donne fumatrici e il ruolo protettivo degli estrogeni. Bisogna considerare anche la distribuzione delle comorbidità, la cui analisi è in corso» spiega Fortunato D’Ancona, medico epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità.
Il fumo conta ma forse c’è altro
Uno dei primi fattori presi in esame è il fumo, partendo dalla considerazione che in Cina, primo paese colpito dal coronavirus, il tasso di fumatori tra la popolazione maschile è molto elevato. Secondo uno studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto nelle prime settimane di contagio, i fumatori rappresentavano il 12% dei contagiati con sintomi lievi, ma saliva al 26% tra quelli gravi e in terapia intensiva. Secondo i ricercatori a spiegarlo potrebbe essere il fatto che chi fuma porta più spesso le mani alla bocca, dunque potrebbe veicolare più facilmente il virus. Ma anche le difficoltà respiratorie e la ridotta capacità polmonare, tipica dei fumatori, potrebbero contribuire a una maggiore incidenza della forma di polmonite causata dal coronavirus. A sostenere la multifattorialità e dunque la concomitanza di altre cause è però anche Sabra Klein, professoressa alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, che ha spiegato: «La crescente mortalità negli uomini non è valida solo in Cina, Italia e Spagna. Lo stiamo vedendo in paesi e culture molto diverse. Quando osservo i dati mi viene da pensare che ci deve essere qualcosa di universale che contribuisce a questo. Non credo che il fumo sia il fattore principale».
Risposte immunitarie diverse
Sempre Klein ha avanzato l’ipotesi che a fare la differenza possa essere la risposta immunitaria antivirale innata, che negli uomini sarebbe inferiore e dimostrata già per altre patologie come epatite C e HIV: «Il sistema immunitario maschile potrebbe non avviare una risposta appropriata quando il virus attacca» ha spiegato l’esperta riferendosi al coronavirus e agli studi condotti sui topi. Ma cosa influenza la risposta immunitaria?
Il ruolo degli estrogeni e della genetica
Le ricerche dimostrano che le donne godono, almeno fino all’insorgere della menopausa, di una “protezione” naturale data dagli estrogeni, che aumentano le risposte antivirali del sistema immunitario. Ma esiste anche una differenza genetica: molti geni che regolano il sistema immunitario dipendono infatti dal cromosoma X. Dal momento che gli uomini ne hanno uno solo (YX) e le donne due (XX), queste ultime potrebbero essere più attive nelle risposte immunitarie.
Più attenzione alla salute e all’igiene
Un ultimo aspetto riguarda i comportamenti differenti. Le donne si dedicherebbero maggiormente all’igiene, specie delle mani, e sarebbero più attente alla propria salute. Se questo possa fare la differenza anche nel caso del COVID-19, però, non è ancora provato.
E se le donne tornassero per prime al lavoro?
Di fronte ai dati, si fa largo l’ipotesi che al momento di rientrare al lavoro le donne possano essere le prime. La prima a lanciare la provocazione è stata la virologa Ilaria Capua durante un programma tv: «Si potrebbe pensare di far tornare prima al lavoro le donne. Dobbiamo prepararci alla post quarantena. La prima cosa è proteggere le persone fragili e poi si può pensare di far rientrare prima le donne» ha spiegato l’esperta. Al momento, però, domina la prudenza: «È troppo presto per delineare una strategia di rientro al lavoro che tenga conto di questo fattore, poiché donne comunque sono affette da COVID-19 quasi nella stessa percentuale dei maschi» spiega l’epidemiologo dell’ISS Paolo D’Ancona.
«Se le donne tornassero prima al lavoro sarebbe interessante. Ma non solo perché si registrano meno vittime tra la popolazione femminile. Vorrebbe dire anche che in questo periodo uomini e donne sono riusciti a realizzare una nuova suddivisione dei compiti. Sarebbe bello se le donne si sentissero più rassicurate sul fatto che i partner sono in grado cavarsela da soli nei compiti familiari. E se gli uomini avessero scoperto gli aspetti manageriali della gestione della casa e dello smart working» commenta Riccarda Zezza, imprenditrice e amministratrice delegata di Life Based Value, che punta a trasferire al mondo manageriale le competenze tipiche dei compiti di cura della persona.