di Barbara Gallavotti, biologa e autrice di Le grandi epidemie (Donzelli) – testo raccolto da Flora Casalinuovo
Comuni in isolamento, scuole, università, musei e teatri chiusi, manifestazioni sportive e fiere sospese, il Carnevale di Venezia annullato. Sono alcune delle misure adottate dal governo, insieme a Regioni e Protezione civile, per arginare i contagi da coronavirus che si sono diffusi a partire dal Lodigiano.
È la prima volta che l’Italia si trova ad attuare procedure del genere. Negli ultimi 2 secoli il nostro Paese ha affrontato solo un’altra grande epidemia, la famosa Spagnola durante la Prima guerra mondiale, ma eravamo nel pieno di un conflitto e all’emergenza dell’influenza quasi non ci si pensava. In tempi più recenti, per esempio con Ebola alla fine degli anni ’90, si isolava il singolo malato che arrivava da zone a rischio come l’Africa. Nel caso della Sars, nel 2002, si riusciva a fermare subito gli infetti e a metterli in quarantena perché i sintomi erano molto più forti e inequivocabili. Stavolta sono più subdoli, simili a quelli dell’influenza, perciò è stato difficile contenere la diffusione del virus. Sentir parlare di zone rosse fa paura, è innegabile. Eppure questa è la strada giusta. Tra scienziati si dice sempre che un grande problema non ha mai soluzioni semplici. La quarantena si applica ai singoli malati e alle persone più vicine, a cui viene impedito tassativamente il contatto con il mondo esterno: non escono dall’ambiente in cui si trovano. Creare una zona rossa, come è stato fatto con i paesi del Lodigiano in cui si sono registrati i primi contagi, vuol dire impedire ai residenti di uscire dai paesi stessi, e agli esterni di entrare, per contenere e isolare il virus, ma possono uscire di casa per un’urgenza.
Non è il momento di polemiche e divisioni: sono misure che ci tutelano. Anche perché qualche errore è stato commesso. Per esempio, bloccare i voli dalla Cina ha paradossalmente allentato le maglie dei controlli, perché ha impedito di tracciare chi arrivava dal Paese asiatico facendo scalo in altre capitali europee e poi raggiungendo il nostro Paese con voli Ue o in treno. Fossilizzarci sull’idea che ci fossero delle categorie a rischio come gli anziani, ha fatto concentrare i monitoraggi su di loro, mentre abbiamo visto che il virus colpisce anche i più giovani, come il 38enne di Codogno. In questa vicenda, poi, tutto è partito da un ospedale in cui lui si è recato più volte: pronto soccorso e reparti hanno fatto da amplificatore perché sono luoghi di grande transito e frequentati da individui malati. Ecco, quindi, il boom di casi. Ma da questi sbagli abbiamo imparato, e ora dobbiamo andare avanti. Senza dimenticare che Covid-19 ha una mortalità bassa, del 2% circa (mentre la Sars arrivava al 10%), e che in oltre l’80% dei casi si guarisce in pochi giorni.
La psicosi che serpeggia ovunque, con le mascherine esaurite e le file ai supermercati, è un meccanismo tipico del genere umano davanti a un’emergenza. Ci si prepara al peggio. E si va a caccia del colpevole. Si è sempre fatto: ai tempi della peste del 1630 raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi c’erano gli untori, oggi si cercano i cinesi o chi starnutisce troppo. L’identificazione di un colpevole tranquillizza l’inconscio perché è una persona reale: la vediamo, possiamo “punirla” e quindi placare l’ansia. Invece il virus resta qualcosa di invisibile e misterioso. Ma la storia insegna che le epidemie si vincono con la solidarietà: nel 1300, ai tempi della peste del Decamerone, i contadini mettevano a disposizione il raccolto e le donne hanno saputo aiutarsi l’un l’altra. Facciamo lo stesso, oggi: non alziamo muri e usiamo la razionalità.
In Italia abbiamo un Sistema sanitario nazionale eccellente e gratuito per tutti. Fidiamoci della scienza, l’unica in grado di darci informazioni vere e verificate attraverso le fonti istituzionali, dall’Organizzazione mondiale della sanità al nostro ministero della Salute. Negli ultimi decenni tutte le epidemie sono state sconfitte grazie alle conquiste della medicina. Per questo occorre imparare a giocare d’anticipo: all’epoca della Sars avremmo dovuto arrivare a un vaccino perché, visto che si tratta della stessa famiglia del coronavirus, ora avremmo un buon punto di partenza. Bisogna investire nella ricerca, anzi nella ricerca pubblica perché non si può chiedere a un’azienda farmaceutica privata di dedicarsi a uno studio che non porta profitti immediati.
E non dimentichiamo i valori della convivenza. La quotidianità ci racconta di un Paese che rischia la paralisi: lo stop ad attività e fabbriche nel Lodigiano sta costando, secondo le stime, 18 milioni di euro al giorno. Dobbiamo fermare il contagio, è sacrosanto applicare alcune soluzioni semplici come lo smart working; ma non si possono bloccare la vita contemporanea e il mondo globalizzato di oggi, fatti di spostamenti di persone, scambi commerciali, immediatezza. Non possiamo tornare a vivere di raccolti e caccia. Sarebbe un suicidio economico, e non solo. Arginiamo le difficoltà, non cediamo agli isterismi, continuiamo a essere civili e responsabili.Da sempre l’uomo ha lottato con virus e batteri. E ha vinto grazie alla scienza.
di Barbara Gallavotti, biologa e autrice di Le grandi epidemie (Donzelli) – testo raccolto da Flora Casalinuovo
Coronavirus: perché tanti malati?
Il conteggio così alto dei malati può essere un segnale positivo. «Scopriamo tanti contagi perché facciamo controlli a tappeto. Nei primi giorni sono stati eseguiti oltre 3.000 tamponi» spiega Fabrizio Pregliasco, virologo all’università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi. «Nel resto d’Europa i numeri sono più bassi dato che il coronavirus si è diffuso con casi singoli in zone diverse. Da noi il contagio in una zona precisa, il Lodigiano, ha portato a test massicci. Che si fanno con un tampone, ma non solo. Serve un’anamnesi accurata della persona, con domande mirate e precise per ricostruire storia clinica, spostamenti e contatti. E, in caso di dubbio, si fanno esami del sangue specifici per vedere se la persona è un portatore sano: se ha gli anticorpi vuol dire che ha avuto il virus, ma senza sintomi».