«Bisogna dirlo agli italiani, la ripresa non arriverà tutta insieme e non sarà veloce». Il professor Andrea Crisanti, virologo e direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova, non ha dubbi: «Invece che pensare al quando, occorre pensare al come potremo riprendere le attività».

Mentre qualcuno ipotizza date (il 4 maggio per le prime riaperture, il 18 per il grosso delle attività?), il calo dei contagi da coronavirus prosegue, anche se lentamente, molto più lentamente rispetto a quanto accaduto in Cina. Ecco perché e cosa dobbiamo aspettarci nelle prossime settimane.

Calo dei contagi molto lento: perché?

Per parlare davvero di calo e soprattutto di fine emergenza dovremo raggiungere la trasmissione R zero, ossia lo stop a nuovi contagi, ma da noi la curva di decrescita è lenta. Perché, secondo lei? «I motivi sono molteplici, ma va chiarito che noi non abbiamo seguito il modello cinese, sarebbe stato inapplicabile visto che lì le attività sono state tutte bloccate. Fino a tre settimane fa c’era ancora gente negli uffici e nelle fabbriche» spiega l’esperto, che aggiunge: «Non va poi sottovalutata la trasmissione del virus all’interno dei nuclei familiari, dove il rischio di ammalarsi a stretto contatto con una persona infetta è 100 volte superiore a quello esterno alle mura di casa» spiega l’esperto, che parla da Londra. Si trova lì, infatti, dove lavora all’Imperial College insieme a Neil Ferguson, l’uomo che ha convinto il premier britannico Boris Johonson a far scattare le misure di contenimento del coronavirus, seppure con grande ritardo. Ma allora come si potrà riprendere la normale attività lavorativa in Italia?

Mascherine obbligatorie

Wuhan ha appena riaperto, inviandoci le immagini di una città in festa, con grattacieli illuminati e gente in strada: tutti, però, rigorosamente con le mascherine. Anche da noi saranno obbligatorie per tornare al lavoro? «Sicuramente, insieme a un distanziamento che sarà necessario per evitare nuovi contagi». Uno studio americano ha ipotizzato che in Italia i contagi zero si raggiungeranno intorno al 19 maggio. Ha senso indicare date o è meglio puntare sulle condizioni? «È inutile indicare date se non disponiamo, ad esempio, di un numero sufficiente di mascherine per tutti» dice Crisanti.

Gradualità, distanziamento, tamponi

«Per riaprire e pensare a un ritorno alla normalità occorre un piano strutturato che preveda almeno tre condizioni: gradualità, ma anche differenziazione sul territorio, nel caso ci siano situazioni di maggiore criticità; mascherine e distanziamento anche sui posti di lavoro; una capacità diagnostica diffusa e capillare sul territorio, unita a una policy internazionale. Ciò significa essere pronti a fare più tamponi, ma anche prevedere una linea nei confronti di chi entrerà nel nostro Paese quando riapriremo – chiarisce il virologo – C’è anche un altro aspetto importante: occorre rinunciare a parte della propria privacy per permettere un tracciamento molto preciso dei contagi, come è stato fatto a Vo’ Euganeo».

«È necessario che l’opinione pubblica sia informata per tempo e non di 15 giorni in 15 giorni» spiega Crisanti, che a costo di risultare impopolare spiega la sua idea: «La verità va detta anche se non piace, per non creare false illusioni, con date ipotizzare e ogni volta rimodulate. Bisogna sapere che il virus continuerà a circolare anche quando si riaprirà e assisteremo a nuovi cluster, ad altri focolai» dice l’esperto.

Test sierologici: sono efficaci?

In questi giorni si sente molto parlare di test rapidi per certificare l’immunità, da effettuare magari prima di tornare al lavoro. Il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli, ha assicurato che in «pochi giorni» si avrà la validazione dei test sierologici da poter usare su larga scala su campioni della popolazione. Ma il virologo dell’ISS, Giovanni Rezza, li ha definiti ancora lontani dall’affidabilità. Lei cosa ne pensa? «I risultati accumulati finora suggeriscono che non siano la soluzione migliore. Questa malattia è diversa dalle altre» risponde Crisanti, secondo cui il problema non riguarda né lo strumento in sé né i criteri di impiego: «Il nostro sistema immunitario semplicemente non riconosce subito il virus come infezione, la risposta immunitaria non è attendibile. Nel caso delle IgM, le immonoglobuline che sono prodotte subito dopo il contagio, spesso non si vedono; le IgG, invece, ossia gli anticorpi prodotti in un secondo tempo (dopo circa 20 giorni, NdR) non sempre sono rilevati dai test, né permettono di capire la rilevanza e la durata della copertura nei confronti della malattia» spiega l’esperto. Ma allora che fare?

La soluzione può essere il test genetico

L’idea di disporre di un «patentino di immunità» non sembra percorribile, né per la fattibilità né per i costi (testare un’intera popolazione è insostenibile). «Più che i test sierologi si sta puntando, anche all’estero, su quelli genetici, che vanno a individuare la presenza o meno del virus a livello di RNA. Si tratta di tamponi molto veloci, sia nell’esecuzione che nel responso: in 30/40 minuti si viene sottoposti ai test e la risposta arriva nell’arco di un’ora e mezza. Sono affidabili e permettono di sapere con certezza se una persona è infetta o meno. Li stanno mettendo a punto negli Usa, ma anche in Europa e il ministero della Salute ha da poco dato il via libera alla sperimentazione anche da noi. La vera sfida è incrementarli» dice Crisanti.